Tranquilli, non me ne sono dimenticato: è solo che impegni e accadimenti vari hanno fatto sì che nelle ultime settimane la frequenza dei miei post sia un po' diminuita. Ma prometto di riprendere con il consueto ritmo (uhm, ritmo? bene, sono già entrato nell'atmosfera musicale...).
Chi ha avuto la pazienza di leggere i due atti iniziali di questa lenta storia a puntate, avrà constatato che il protagonista assoluto è stato finora Pitagora.
Il filosofo di Samo fu probabilmente il primo costruttore di scale musicali della storia. Partendo dal postulato che un intervallo di note è tanto più consonante quanto più semplice è il rapporto numerico al quale corrisponde, Pitagora concluse che i migliori intervalli non potevano che essere l'ottava (corrispondente al rapporto 2:1) e la quinta (3:2), e costruì quindi la sua scala muovendosi tra le note per quinte e ottave.
Il risultato fu una scala diatonica, cioè formata da sette note che si susseguono secondo uno schema che fa uso di due tipi di intervallo tra una nota e la sua successiva: il "tono", corrispondente al rapporto 9:8 o a 203,91 cent (ad esempio tra do e re), e la "limma", corrispondente al rapporto 256:243 o a 90,22 cent (ad esempio tra mi e fa).
I pregi della scala pitagorica sono evidenti. Prima di tutto, abbiamo soltanto questi due tipi di intervalli, e non è cosa da poco. Il salto esistente tra do e re è lo stesso che c'è tra re e mi, o tra fa e sol e tra la e si, mentre la distanza tra mi e fa è pari a quella tra si e do.
Inoltre, avendo costruito la scala sulla base degli intervalli di quinta e di ottava, Pitagora ha mantenuto questi intervalli associati ai rapporti semplici di 3:2 e 2:1, e quindi perfettamente consonanti.
Infine, questa scala consentì ai Greci di esplorare per primi le grandi potenzialità espressive della musica: si accorsero cioè che cambiando la nota di partenza della scala (ad esempio dal do al fa) e mantenendo la posizione relativa dei due intervalli di limma all'interno della scala, l'"atmosfera" musicale restava pressoché invariata, mentre collocando i due intervalli di limma in posizioni diverse da quella originaria si ottenevano "sapori" sorprendentemente diversi, che i Greci chiamarono "modi" musicali.
A fronte di questi punti di forza, la scala pitagorica mostra anche alcuni gravi difetti.
Il primo problema è quello del "cerchio che non si chiude", descritto ampiamente nel post precedente.
Un'altra lacuna è quella che ha condotto alla nascita della cosiddetta "scala naturale". Se gli intervalli di quinta e di ottava sono consonanti, quelli di terza e di sesta non lo sono, essendo espressi da rapporti non semplici (rispettivamente 81:64 e 27:16). Il rapporto pitagorica di terza, 81:64, è però molto vicino al rapporto semplice 5:4: era quindi inevitabile che ben presto cantanti e musicisti cominciassero a intonare la voce e gli strumenti in modo appunto "naturale", con la terza accordata secondo il rapporto di 5:4.
Infine, la scala pitagorica è affetta da un problema legato al cambio di tonalità: se uno strumento è accordato pitagoricamente in una certa tonalità, è probabile che diventi scordato se suonato in una tonalità diversa.
Nel 1558 il teorico musicale veneziano Gioseffo Zarlino, nel suo trattato "Le istituzioni harmoniche", costruì una scala nella quale risultavano basate su rapporti numerici semplici non soltanto l'ottava (2:1) e la quinta (3:2), ma anche la terza (5:4).
In realtà la teoria di Zarlino non era una novità assoluta, ma rappresentava la formalizzazione di idee che erano state proposte già nell'antichità, quindi ben prima dell'imporsi della tonalità sulla scena musicale.
Già nel quarto secolo a.C., infatti, il filosofo e scienziato tarantino Archita, che fu anche uomo di stato e stratega militare, abbozzò i principi della cosiddetta "intonazione naturale"; ma fu soprattutto Claudio Tolomeo, astronomo e geografo dell'età ellenistica, autore del celebre "Almagesto", fu il primo ad ammettere gli intervalli di terza e di sesta nel club esclusivo degli intervalli consonanti.
Rispetto al sistema pitagorico, il sistema "naturale" tolemaico-zarliniano conferma i rapporti semplici 2:1 per l'ottava, 3:2 per la quinta e 4:3 per la quarta, ma introduce il rapporto 5:4 per l'intervallo di terza.
Gli altri intervalli necessari per costruire la scala vengono ricavati di conseguenza.
L'intervallo di seconda maggiore (che sussiste ad esempio tra il do e il re) viene ricavato come differenza tra una quinta e una quarta, cioè (3:2):(4:3) = 9:8, che è lo stesso valore che aveva trovato Pitagora.
L'intervallo di sesta maggiore (che sussiste ad esempio tra il do e il la) è calcolato come somma di una quarta e una terza, cioè (4:3)*(5:4) = 5:3: qui Pitagora aveva invece trovato il rapporto 27:16, certamente meno semplice.
L'intervallo di settima maggiore (che sussiste ad esempio tra il do e il si) è ricavato come somma di una quinta e di una terza, cioè (3:2)*(5:4) = 15/8: anche in questo caso il sistema pitagorico prevedeva invece una frazione più complessa, e cioè 243:128.
L'appellativo di "naturale" che viene attribuito alla scala tolemaico-zarliniana ha sicuramente a che fare con la "semplicità" di questi rapporti, e quindi con la consonanza dei corrispondenti intervalli musicali, ma è anche giustificato da una connessione con la fisica, in particolare con il fenomeno degli armonici.
Supponiamo di suonare il tasto del do centrale su un pianoforte. L'onda sonora che viene emessa avrà una forma che è legata al timbro particolare del pianoforte: se producessimo la stessa nota con una tromba, o con una chitarra, o con la voce di un cantante, emetteremmo una forma d'onda diversa. Com'è possibile? L'onda generata è in realtà la somma di diverse onde "elementari", dette armonici, tutte caratterizzate dalla stessa semplicissima forma matematica (detta sinusoidale) e intonate sulle frequenze multiple della nota fondamentale; i timbri caratteristici dei vari strumenti, e quindi le diverse forma d'onda, dipendono unicamente dai diversi pesi attribuiti ai diversi armonici.
Torniamo al nostro do centrale del pianoforte,cioè il do3. Chiamiamo F la sua frequenza, che vale circa 261,6 hertz. I suoi armonici avranno frequenze multiple di F, cioè rispettivamente 2F = 523,2 hertz, 3F = 784,8 hertz, 4F = 1046,4 hertz, e così via. Ovviamente man mano che si sale nella successione degli armonici, l'ampiezza dell'onda corrispondente, cioè la sua intensità sonora, diminuirà rapidamente: se così non fosse, il nostro orecchio non percepirebbe la nota fondamentale come nettamente dominante rispetto agli armonici, il cui "compito" principale è contribuire al colore timbrico dell'insieme.
I primi cinque armonici del do3 sono i seguenti:
- il primo armonico ha frequenza 2F, cioè dista un'ottava dalla nota fondamentale, ed è quindi un do4;
- il secondo armonico ha frequenza 3F = 2(3/2)F, cioè dista un'ottava più una quinta dalla nota fondamentale, ed è quindi un sol4;
- il terzo armonico ha frequenza 4F = 2*2F, cioè dista due ottave dalla nota fondamentale, ed è quindi un do5;
- il quarto armonico ha frequenza 5F = 2*2(5/4)F, cioè dista due ottave più una terza dalla nota fondamentale, ed è quindi un mi5;
- il quinto armonico ha frequenza 6F = 2*2*(3/2)F, cioè dista due ottave più una quinta dalla nota fondamentale, ed è quindi un sol5.
Salve,
RispondiEliminainnanzitutto grazie per l'ottimo lavoro di sintesi.
sono uno storico dell'arte e sto cercando di studiare le relazioni tra musica e arte del Cinquecento.
non ho nozioni musicali e sono in seria difficoltà.
non capisco questioni basilari e quindi faccio alcune domande:
la tradizione attribuisce a Pitagora la definizione di 7 suoni o di 12?
Che relazione c'è tra i suoni di Pitagora e le note di Guido d'Arezzo? Se i suoni erano 7 da principio, perché il SI è stato introdotto solo nel Rinascimento?
Mi scuso per la banalità delle domande e ringrazio anticipatamente chi avrà la gentilezza di rispondermi.
Chiedo scusa per l'enorme ritardo della mia risposta, che spero possa essere ancora utile.
RispondiEliminaIn breve: la scala pitagorica diatonica comprende 7 suoni, ma la corrispondente cromatica ne rappresenta un'estensione che include anche le note alterate, arrivando anche a più di 12 suoni, secondo quanto ho descritto nei post precedenti di questa serie.
Riguardo a Guido d'Arezzo, il suo merito è legato al fatto di aver dato un nome alle note della scala: nomi che rimasero per molto tempo relativi ai gradi di una qualsiasi scala e non a frequenze assolute.
Il nome "Si" venne invece introdotto alla fine del Cinquecento per indicare, sempre in modo relativo, il settimo grado di una scala diatonica.
Solo nel corso del Seicento i nomi guidoniani e il recente Si vennero legati in modo preciso a determinate altezze, giungendo al significato odierno.
Buongiorno, riguardo all'inserimento del Si o Sib, proprio ieri ho scritto un articolo. Credo che la spiegazione sia un tantino più complessa. https://www.youwinemagazine.it/2024/06/bartolome-ramos-de-pareja-il-pioniere.html
RispondiEliminaBuongiorno, forse mi sbaglio ma nel suo articolo non mi pare si parli del "calcolo dell'altezza" della nota del settimo grado, ma più che altro della questione dei nomi delle note. O sbaglio? Sul fatto che nella scala naturale il Si si trovi a un rapporto di 15/8 rispetto alla nota fondamentale non mi sembra che ci siano dubbi. O forse ho capito male il suo appunto?
EliminaGrazie del contributo.