Con l'edizione di settembre, ospitata dal blog Scienza.alfa di Jacopo Pasotti, il Carnevale dei Libri di Scienza compie il suo primo anno di vita!
L'interessante tema scelto, le biografie di scienzati, ha attratto un buon numero di contributi, tra i quali quello di Mr. Palomar sulla graphic novel dedicata a Richard Feynman.
Nel fare i complimenti all'organizzatore e ai partecipanti, ricordo l'appuntamento con la prossima edizione, che sarà ospitata, con il tema "Le scienze nella letteratura", da BiblioBredaBlog: un blog che mi sta molto a cuore, essendo curato dalla biblioteca del paese dove vivo (e dalla "mia bibliotecaria preferita"), nonché dai gruppi di volontari che gravitano attorno alla biblioteca stessa (dei quali io stesso faccio parte).
Buona lettura e buon carnevale a tutti!
giovedì 27 settembre 2012
mercoledì 26 settembre 2012
Pitagora e la scoperta della musica
In un mio vecchio post senza parole, intitolato
semplicemente "Pitagora", Antonella Ruggiero suona un curioso strumento ispirato al celebre "monocordo" del filosofo di Samo. Questo strumento fu inventato e utilizzato da Pitagora per i suoi studi di teoria musicale. Come il suo stesso nome suggerisce, era composto da una sola corda, tesa tra due ponticelli sopra una cassa armonica; sotto la corda un terzo ponticello intermedio e mobile consentiva di dividere la corda stessa a piacere, dando origine a suoni diversi. Pitagora fu il primo a fondare lo studio della musica su basi matematiche.
Dalle sue sperimentazioni sul monocordo capì che una corda messa in vibrazione produce un suono la cui “altezza” percepita dall’orecchio umano è in stretta relazione con la lunghezza della corda stessa.
Certo, Pitagora non poteva arrivare a concepire il legame tra l’altezza di un suono e la frequenza dell’onda sonora associata; più semplicemente si accorse che più la corda è lunga, più la nota prodotta viene avvertita come “bassa” o “grave”; al contrario una corda più corta produce una nota che viene riconosciuta come più “alta” o “acuta”.
Ma il grande matematico greco non si fermò a questa elementare considerazione. Ebbe infatti l’idea di associare ogni nota ad un numero, precisamente l’inverso della lunghezza della corda responsabile della generazione del suono stesso. Ad esempio, associò al numero 1 la nota prodotta da una corda lunga 1 metro, e al numero 2 la nota prodotta da una corda lunga mezzo metro.
Grazie a questo utilizzo dell’inverso della lunghezza, note più acute risultano associate a numeri più grandi, in modo da conciliare l'altezza della nota con l’altezza del numero che la rappresenta.
Inoltre, adoperando questo metodo, ogni nota risulta contraddistinta da un numero che è di fatto proporzionale alla propria frequenza.
Una volta ideato questo sistema di numerazione dei suoni, Pitagora considerò diverse “coppie” di note (che a questo punto potevano essere tradotte in coppie di numeri), e scoprì che le note che “stanno bene insieme” sono legate tra di loro da un rapporto numerico semplice. Ad esempio, se facciamo vibrare una corda che produce una nota legata al numero 1, e poi un’altra corda che genera un suono associato al numero 2 (in questo caso, quindi, la prima corda è lunga il doppio della seconda), otteniamo due suoni che l’orecchio umano, istintivamente, classifica come “simili”, o addirittura “uguali”. Questo intervallo musicale è quello che noi chiamiamo "ottava" (il motivo di questo nome diventerà chiaro più avanti). Le due note suonano all'orecchio così "uguali" che nella tradizione musicale vengono chiamate con lo stesso nome: ad esempio due do.
Quando non sono impegnato con il lavoro o con le mie corbellerie divulgative, mi onoro di far parte di un pregevole coro, alle cui performance contribuisco con una mediocre voce di basso. Ebbene, i brani che cantiamo prevedono, nella maggior parte dei casi, quattro voci, che corrispondono ai quattro registri di soprano, contralto, tenore e basso; normalmente le quattro parti portano avanti altrettante linee melodiche indipendenti, che però si intrecciano reciprocamente generando un contrappunto che fa del coro un vero gruppo polifonico. In alcuni casi, però, ad esempio quando cantiamo brani della tradizione gregoriana, le voci sono soltanto due: soprani e contralti cantano all'unisono, mentre tenori e bassi cantano esattamente la stessa melodia ma traslata in basso di un'ottava. Questo è un esempio di canto corale monodico, in cui se due note vengono "suonate" insieme, si tratta di due note separate tra loro da un rapporto numerico pari a 2:1. In altre parole, se volessimo riprodurre con una corda la nota intonata da soprani e contralti (quella all'ottava superiore, insomma), servirebbe una corda lunga esattamente la metà di quella necessaria per imitare la nota cantata dai bassi e dai tenori.
Il rapporto numerico semplice tra le lunghezze delle corde si riflette (anche se Pitagora questo non lo sapeva) nel rapporto tra le frequenze dei suoni fondamentali: se, ad esempio, le donne del coro intonano un la centrale (quello del diapason, per intenderci), pari a una frequenza di 440 hertz, gli uomini del coro rispondono con un la all'ottava sotto, pari a una frequenza di 220 hertz.
Un altro intervallo di note che "suonano bene insieme", notò Pitagora, è quello associato al rapporto 3:2: in questo caso non avvertiamo quel senso di "uguaglianza" di note, ma universalmente la combinazione sonora è percepita come gradevole, armoniosa, o, come dicono i musicisti, "consonante".
Partendo dalla nota associata al numero 1, quindi, invece di passare alla nota legata al numero 2 (cioè prodotta da una corda lunga la metà), passiamo a una nota legata al numero 3:2 = 1,5 (quindi prodotta da una corda lunga due terzi rispetto alla prima).
Così come l'intervallo collegato al rapporto 2:1 viene chiamato dai musicisti "ottava", quello connesso al rapporto 3:2 è detto "quinta" (ancora una volta, non preoccupiamoci del motivo: apparirà chiaro più avanti).
Sulla base di questa semplice matematica, possiamo ripercorrere il metodo attraverso il quale Pitagora costruì la prima scala musicale (per la verità, prima di lui furono matematici cinesi a inventare il procedimento, ma la tradizione occidentale attribuisce la scoperta al filosofo di Samo).
Partendo da una nota convenzionalmente associata al numero 1, saltiamo avanti di una ottava, arrivando alla nota contraddistinta dal numero 2:1 = 2. Le due note così ottenute, come abbiamo visto, suonano come "la stessa nota". E' quindi naturale assegnare loro lo stesso nome, ad esempio "do", ma abbiamo anche la necessità di distinguerle in qualche modo: utilizziamo per questo motivo la convenzione di chiamare "do1" la nota iniziale, più bassa, e "do2" la seconda, all'ottava superiore.
Se facciamo altri salti di un'ottava, raddoppiando ad ogni salto il numero della nota, otteniamo via via altri do: il do3, associato al numero 4, il do4, associato al numero 8, il do5, associato al numero 16, e così via. Partendo sempre dal do1 e tornando indietro di un'ottava, otteniamo invece il do0, il cui numero associato è 1:2 = 0,5.
In questo modo, i pedici aggiunti ai nomi delle note servono ad indicare l'ottava di appartenenza della nota stessa. Il nostro obiettivo, però, è quello di concentrarci su una sola delle ottave, ad esempio quella contenente le note associate a numeri compresi tra 1 e 2, e determinare l'altezza numerica di queste singole note: vogliamo, in altre parole, costruire una semplice scala musicale che copre l'ottava compresa tra il do1 e il do2. Ripartiamo allora dal do1, e andiamo avanti di una quinta, ottenendo una nota legata al numero 3:2 = 1,5. Essendo questo numero compreso tra 1 e 2, deduciamo che questa nota è compresa tra il do1 e il do2, (com'è ovvio che sia, dato che l'intervallo di quinta è più piccolo di quello di ottava), e la chiamiamo "sol1".
Partendo sempre dal do1, ma andando indietro di una quinta, costruiamo una nota che risulta associata al rapporto 2:3 = 0,666. In questo caso ci troviamo sopra il numero 0,5 associato al do0, per cui battezzeremo la nota ottenuta come "fa0". Sappiamo però che la nostra meta è riempire l'ottava compresa tra il do1 e il do2, mentre questo fa0 si trova fuori di tale intervallo. Niente paura: basta avanzare di una ottava, cioè raddoppiare il rapporto 2:3, ottenendo 4:3. Ecco a voi il "fa1", corrispondente al numero 4:3 = 1,333.
Dato che con tutte queste note rischiamo di perderci, aggiorniamo la situazione con un nuovo schema, questa volta limitato all'ottava compresa tra il do1 e il do2.
Ho volutamente lasciato degli spazi tra una nota e l'altra, perché ancora non sappiamo quali altre note riusciremo a costruire grazie al metodo pitagorico e quali spazi ancora vuoti della scala andranno a riempire. Ripartendo dal sol1, proseguiamo avanti sempre considerando intervalli di quinta: la prima volta raggiungiamo la nota corrispondente al numero (3:2) * (3:2) = 9:4 = 2,25, che si trova fuori dalla nostra ottava di riferimento. Abbiamo quindi bisogno di abbassarci di un'ottava, dividendo per 2: abbiamo così creato la nota associata al numero 9:8 = 1,125, che chiameremo "re1".
Salendo ancora di una quinta, giungiamo al suono legato al numero (9:8) * (3:2) = 27:16 = 1,6875, che si trova nel nostro intervallo: questa nota la chiameremo "la1".
Da questa nota si arriva, con un altro salto di quinta, al numero (27:16) * (3:2) = 81:32 = 2,53125, che è sopra il do2, e quindi necessita di un abbassamento di ottava. Così facendo, cioè dimezzando il numero, otteniamo 81:64 = 1,265625, e diamo il nome "mi1" alla nota che abbiamo generato.
L'ultimo passo ci serve per arrivare alla nota contraddistinta dal numero (81:64) * (3:2) = 243:128 = 1,8984375, che appartiene ancora all'ottava considerata e che chiameremo "si1".
Non ci resta che mettere in ordine le note che abbiamo costruito grazie a questo procedimento. Ciò che otteniamo è la scala pitagorica:
Il risultato al quale giunse Pitagora è molto elegante dal punto di vista matematico. Per prima cosa, procedendo per intervalli di quinta (eventualmente corretti per ottava), abbiamo ottenuto una scala formata da note che vanno dal do1 al do2: precisamente sette note (senza considerare la ripetizione del do).
Il fatto che le note siano sette, più l'ottava che è uguale alla nota di partenza, ci chiarisce finalmente il motivo del termine "ottava", che avevamo dato per scontato all'inizio.
Anche la parola "quinta" diventa ora ovvia: si tratta di un intervallo che spazia tra cinque note della scala.
Inoltre, e qui sta il bello, le note della scala che abbiamo costruito risultano disposte in modo piuttosto uniforme; in altre parole gli intervalli tra due note consecutive sono di soli due tipi:
1) un intervallo detto tono, corrispondente a 9:8 = 1,125, esistente tra il do e il re (infatti (9:8)/1 = 9:8), tra il re e il mi (infatti (81:64)/(9:8) = 9:8), tra il fa e il sol (infatti (3:2)/(4:3) = 9:8), tra il sol e il la (infatti (27:16)/(3:2) = 9:8) e tra il la e il si (infatti (243:128)/(27:16) = 9:8);
2) un intervallo detto limma, corrispondente a 256:243 ≈ 1,053, esistente tra il mi e il fa (infatti (4:3)/(81:64) = 256:243) e tra il si e il do (infatti 2/(243:128) = 256:243).
Il fatto negativo è che questi due diversi intervalli non sono imparentati l'uno con l'altro. Sicuramente Pitagora sarebbe stato molto felice se avesse potuto constatare che la limma era esattamente la metà del tono: ma così purtroppo non è.
La limma risulta uguale a circa il 44,25% del tono: insomma, non c'è una relazione semplice tra le due quantità. Ne consegue che l'ottava non può essere divisa in parti proporzionali (per evitare di dover modificare l'intonazione delle singole note al cambiare della tonalità), e questo costituisce il più grave difetto della scala pitagorica appena costruita. Nelle prossime puntate di questa nuova serie di post, vedremo come questo problema fu affrontato e infine risolto.
Dalle sue sperimentazioni sul monocordo capì che una corda messa in vibrazione produce un suono la cui “altezza” percepita dall’orecchio umano è in stretta relazione con la lunghezza della corda stessa.
Certo, Pitagora non poteva arrivare a concepire il legame tra l’altezza di un suono e la frequenza dell’onda sonora associata; più semplicemente si accorse che più la corda è lunga, più la nota prodotta viene avvertita come “bassa” o “grave”; al contrario una corda più corta produce una nota che viene riconosciuta come più “alta” o “acuta”.
Ma il grande matematico greco non si fermò a questa elementare considerazione. Ebbe infatti l’idea di associare ogni nota ad un numero, precisamente l’inverso della lunghezza della corda responsabile della generazione del suono stesso. Ad esempio, associò al numero 1 la nota prodotta da una corda lunga 1 metro, e al numero 2 la nota prodotta da una corda lunga mezzo metro.
Grazie a questo utilizzo dell’inverso della lunghezza, note più acute risultano associate a numeri più grandi, in modo da conciliare l'altezza della nota con l’altezza del numero che la rappresenta.
Inoltre, adoperando questo metodo, ogni nota risulta contraddistinta da un numero che è di fatto proporzionale alla propria frequenza.
Una volta ideato questo sistema di numerazione dei suoni, Pitagora considerò diverse “coppie” di note (che a questo punto potevano essere tradotte in coppie di numeri), e scoprì che le note che “stanno bene insieme” sono legate tra di loro da un rapporto numerico semplice. Ad esempio, se facciamo vibrare una corda che produce una nota legata al numero 1, e poi un’altra corda che genera un suono associato al numero 2 (in questo caso, quindi, la prima corda è lunga il doppio della seconda), otteniamo due suoni che l’orecchio umano, istintivamente, classifica come “simili”, o addirittura “uguali”. Questo intervallo musicale è quello che noi chiamiamo "ottava" (il motivo di questo nome diventerà chiaro più avanti). Le due note suonano all'orecchio così "uguali" che nella tradizione musicale vengono chiamate con lo stesso nome: ad esempio due do.
Quando non sono impegnato con il lavoro o con le mie corbellerie divulgative, mi onoro di far parte di un pregevole coro, alle cui performance contribuisco con una mediocre voce di basso. Ebbene, i brani che cantiamo prevedono, nella maggior parte dei casi, quattro voci, che corrispondono ai quattro registri di soprano, contralto, tenore e basso; normalmente le quattro parti portano avanti altrettante linee melodiche indipendenti, che però si intrecciano reciprocamente generando un contrappunto che fa del coro un vero gruppo polifonico. In alcuni casi, però, ad esempio quando cantiamo brani della tradizione gregoriana, le voci sono soltanto due: soprani e contralti cantano all'unisono, mentre tenori e bassi cantano esattamente la stessa melodia ma traslata in basso di un'ottava. Questo è un esempio di canto corale monodico, in cui se due note vengono "suonate" insieme, si tratta di due note separate tra loro da un rapporto numerico pari a 2:1. In altre parole, se volessimo riprodurre con una corda la nota intonata da soprani e contralti (quella all'ottava superiore, insomma), servirebbe una corda lunga esattamente la metà di quella necessaria per imitare la nota cantata dai bassi e dai tenori.
Il rapporto numerico semplice tra le lunghezze delle corde si riflette (anche se Pitagora questo non lo sapeva) nel rapporto tra le frequenze dei suoni fondamentali: se, ad esempio, le donne del coro intonano un la centrale (quello del diapason, per intenderci), pari a una frequenza di 440 hertz, gli uomini del coro rispondono con un la all'ottava sotto, pari a una frequenza di 220 hertz.
Un altro intervallo di note che "suonano bene insieme", notò Pitagora, è quello associato al rapporto 3:2: in questo caso non avvertiamo quel senso di "uguaglianza" di note, ma universalmente la combinazione sonora è percepita come gradevole, armoniosa, o, come dicono i musicisti, "consonante".
Partendo dalla nota associata al numero 1, quindi, invece di passare alla nota legata al numero 2 (cioè prodotta da una corda lunga la metà), passiamo a una nota legata al numero 3:2 = 1,5 (quindi prodotta da una corda lunga due terzi rispetto alla prima).
Così come l'intervallo collegato al rapporto 2:1 viene chiamato dai musicisti "ottava", quello connesso al rapporto 3:2 è detto "quinta" (ancora una volta, non preoccupiamoci del motivo: apparirà chiaro più avanti).
Sulla base di questa semplice matematica, possiamo ripercorrere il metodo attraverso il quale Pitagora costruì la prima scala musicale (per la verità, prima di lui furono matematici cinesi a inventare il procedimento, ma la tradizione occidentale attribuisce la scoperta al filosofo di Samo).
Partendo da una nota convenzionalmente associata al numero 1, saltiamo avanti di una ottava, arrivando alla nota contraddistinta dal numero 2:1 = 2. Le due note così ottenute, come abbiamo visto, suonano come "la stessa nota". E' quindi naturale assegnare loro lo stesso nome, ad esempio "do", ma abbiamo anche la necessità di distinguerle in qualche modo: utilizziamo per questo motivo la convenzione di chiamare "do1" la nota iniziale, più bassa, e "do2" la seconda, all'ottava superiore.
Se facciamo altri salti di un'ottava, raddoppiando ad ogni salto il numero della nota, otteniamo via via altri do: il do3, associato al numero 4, il do4, associato al numero 8, il do5, associato al numero 16, e così via. Partendo sempre dal do1 e tornando indietro di un'ottava, otteniamo invece il do0, il cui numero associato è 1:2 = 0,5.
do0
|
do1
|
do2
|
do3
|
do4
|
do5
|
…
|
1:2 = 0,5
|
1
|
2:1 = 2
|
2 * 2:1 = 4
|
4* 2:1 = 8
|
8 * 2:1 = 16
|
…
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In questo modo, i pedici aggiunti ai nomi delle note servono ad indicare l'ottava di appartenenza della nota stessa. Il nostro obiettivo, però, è quello di concentrarci su una sola delle ottave, ad esempio quella contenente le note associate a numeri compresi tra 1 e 2, e determinare l'altezza numerica di queste singole note: vogliamo, in altre parole, costruire una semplice scala musicale che copre l'ottava compresa tra il do1 e il do2. Ripartiamo allora dal do1, e andiamo avanti di una quinta, ottenendo una nota legata al numero 3:2 = 1,5. Essendo questo numero compreso tra 1 e 2, deduciamo che questa nota è compresa tra il do1 e il do2, (com'è ovvio che sia, dato che l'intervallo di quinta è più piccolo di quello di ottava), e la chiamiamo "sol1".
Partendo sempre dal do1, ma andando indietro di una quinta, costruiamo una nota che risulta associata al rapporto 2:3 = 0,666. In questo caso ci troviamo sopra il numero 0,5 associato al do0, per cui battezzeremo la nota ottenuta come "fa0". Sappiamo però che la nostra meta è riempire l'ottava compresa tra il do1 e il do2, mentre questo fa0 si trova fuori di tale intervallo. Niente paura: basta avanzare di una ottava, cioè raddoppiare il rapporto 2:3, ottenendo 4:3. Ecco a voi il "fa1", corrispondente al numero 4:3 = 1,333.
Dato che con tutte queste note rischiamo di perderci, aggiorniamo la situazione con un nuovo schema, questa volta limitato all'ottava compresa tra il do1 e il do2.
do1
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…
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fa1
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…
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sol1
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…
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do2
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…
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1
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…
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4:3 = 1,333
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…
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3:2 = 1,5
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…
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2:1 = 2
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…
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Ho volutamente lasciato degli spazi tra una nota e l'altra, perché ancora non sappiamo quali altre note riusciremo a costruire grazie al metodo pitagorico e quali spazi ancora vuoti della scala andranno a riempire. Ripartendo dal sol1, proseguiamo avanti sempre considerando intervalli di quinta: la prima volta raggiungiamo la nota corrispondente al numero (3:2) * (3:2) = 9:4 = 2,25, che si trova fuori dalla nostra ottava di riferimento. Abbiamo quindi bisogno di abbassarci di un'ottava, dividendo per 2: abbiamo così creato la nota associata al numero 9:8 = 1,125, che chiameremo "re1".
Salendo ancora di una quinta, giungiamo al suono legato al numero (9:8) * (3:2) = 27:16 = 1,6875, che si trova nel nostro intervallo: questa nota la chiameremo "la1".
Da questa nota si arriva, con un altro salto di quinta, al numero (27:16) * (3:2) = 81:32 = 2,53125, che è sopra il do2, e quindi necessita di un abbassamento di ottava. Così facendo, cioè dimezzando il numero, otteniamo 81:64 = 1,265625, e diamo il nome "mi1" alla nota che abbiamo generato.
L'ultimo passo ci serve per arrivare alla nota contraddistinta dal numero (81:64) * (3:2) = 243:128 = 1,8984375, che appartiene ancora all'ottava considerata e che chiameremo "si1".
Non ci resta che mettere in ordine le note che abbiamo costruito grazie a questo procedimento. Ciò che otteniamo è la scala pitagorica:
do1
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re1
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mi1
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fa1
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sol1
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la1
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si1
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do2
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1
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9:8 = 1,125
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81:64 = 1,266
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4:3 = 1,333
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3:2 = 1,5
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27:16 = 1,687
|
243:128 =
1,898
|
2:1 = 2
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Il risultato al quale giunse Pitagora è molto elegante dal punto di vista matematico. Per prima cosa, procedendo per intervalli di quinta (eventualmente corretti per ottava), abbiamo ottenuto una scala formata da note che vanno dal do1 al do2: precisamente sette note (senza considerare la ripetizione del do).
Il fatto che le note siano sette, più l'ottava che è uguale alla nota di partenza, ci chiarisce finalmente il motivo del termine "ottava", che avevamo dato per scontato all'inizio.
Anche la parola "quinta" diventa ora ovvia: si tratta di un intervallo che spazia tra cinque note della scala.
Inoltre, e qui sta il bello, le note della scala che abbiamo costruito risultano disposte in modo piuttosto uniforme; in altre parole gli intervalli tra due note consecutive sono di soli due tipi:
1) un intervallo detto tono, corrispondente a 9:8 = 1,125, esistente tra il do e il re (infatti (9:8)/1 = 9:8), tra il re e il mi (infatti (81:64)/(9:8) = 9:8), tra il fa e il sol (infatti (3:2)/(4:3) = 9:8), tra il sol e il la (infatti (27:16)/(3:2) = 9:8) e tra il la e il si (infatti (243:128)/(27:16) = 9:8);
2) un intervallo detto limma, corrispondente a 256:243 ≈ 1,053, esistente tra il mi e il fa (infatti (4:3)/(81:64) = 256:243) e tra il si e il do (infatti 2/(243:128) = 256:243).
Il fatto negativo è che questi due diversi intervalli non sono imparentati l'uno con l'altro. Sicuramente Pitagora sarebbe stato molto felice se avesse potuto constatare che la limma era esattamente la metà del tono: ma così purtroppo non è.
La limma risulta uguale a circa il 44,25% del tono: insomma, non c'è una relazione semplice tra le due quantità. Ne consegue che l'ottava non può essere divisa in parti proporzionali (per evitare di dover modificare l'intonazione delle singole note al cambiare della tonalità), e questo costituisce il più grave difetto della scala pitagorica appena costruita. Nelle prossime puntate di questa nuova serie di post, vedremo come questo problema fu affrontato e infine risolto.
lunedì 24 settembre 2012
Feynman a fumetti
Se il fumetto è, per così dire, un mezzo anticonvenzionale per fare divulgazione scientifica, non si poteva scegliere una figura di scienziato più appropriata per una graphic novel: Richard Feynman non era soltanto un fisico geniale e di primo livello (fu insignito del Nobel all'età di 47 anni), ma anche un uomo singolare, divertente e brillante, pieno di interessi extra-scientifici e amatissimo dal pubblico.
Come ricorda il retro di copertina, Feynman era scassinatore di casseforti, avventuriero, musicista (suonava il bongo), raccontastorie di prima categoria e un vero spasso alle feste. Quando una rivista l'aveva definito come l'uomo più intelligente del mondo, sua madre affermò: "Se questo è l'uomo più intelligente del mondo, che Dio ci aiuti".
Pochi giorni fa un carissimo amico mi ha regalato per il mio compleanno questo delizioso libro, realizzato da Jim Ottaviani e Leland Myrick per Bao Publishing. Sfogliando le sue pagine, la tentazione di scrivere due righe su quest'opera si è fatta subito irresistibile, nonostante Feynman non fosse né un matematico né un informatico: ma non possiamo dimenticare che le connessioni tra questa grande mente del Novecento e la computer science sono numerose e fondamentali.
L'attuale ricerca sui computer quantistici, di cui ho tentato di tracciare una sintetica introduzione nei miei quattro post "Mr. Q" (prima, seconda, terza e quarta parte), prese le mosse nel 1982 da una geniale idea di Feynman.
La brillante biografia di Ottaviani e Myrick non approfondisce questo aspetto dell'opera del fisico americano, ma svela altre incursioni di Feynman nel mondo dell'informatica: dai suoi contributi allo studio dei computer paralleli, alle ricerche sulla teoria dell'informazione digitale e alle nanotecnologie.
Due parole sugli autori di questo libro: Jim Ottaviani è ingegnere, bibliotecario e programmatore, e ha al suo attivo molte altre storie a fumetti sulla storia della scienza; Leland Myrick è un pluripremiato autore e illustratore di graphic novel.
Il romanzo grafico che hanno realizzato racconta la vita di Feynman dalla sua partecipazione al Progetto Manhattan fino alla sua consulenza per individuare, nel 1986, le cause del disastro dello Shuttle Challenger, passando attraverso gli studi, gli amori, la brillante carriera accademica e scientifica, gli incontri con altri grandi scienziati, lo sviluppo dei diagrammi e degli integrali di cammino che portano il suo nome, le ricerche sull'elettrodinamica quantistica che gli valsero il Nobel, le sue brillanti conferenze, l'interesse per la biologia.
La narrazione è appassionante, chiara, divertente, ma non rinuncia al rigore e si addentra con successo in taluni dettagli molto tecnici delle teorie di Feynman: ma senza mai annoiare e senza fare impazzire il lettore. Leggetelo: libri come questo sono eccellenti esempi di divulgazione scientifica.
Come ricorda il retro di copertina, Feynman era scassinatore di casseforti, avventuriero, musicista (suonava il bongo), raccontastorie di prima categoria e un vero spasso alle feste. Quando una rivista l'aveva definito come l'uomo più intelligente del mondo, sua madre affermò: "Se questo è l'uomo più intelligente del mondo, che Dio ci aiuti".
Pochi giorni fa un carissimo amico mi ha regalato per il mio compleanno questo delizioso libro, realizzato da Jim Ottaviani e Leland Myrick per Bao Publishing. Sfogliando le sue pagine, la tentazione di scrivere due righe su quest'opera si è fatta subito irresistibile, nonostante Feynman non fosse né un matematico né un informatico: ma non possiamo dimenticare che le connessioni tra questa grande mente del Novecento e la computer science sono numerose e fondamentali.
L'attuale ricerca sui computer quantistici, di cui ho tentato di tracciare una sintetica introduzione nei miei quattro post "Mr. Q" (prima, seconda, terza e quarta parte), prese le mosse nel 1982 da una geniale idea di Feynman.
La brillante biografia di Ottaviani e Myrick non approfondisce questo aspetto dell'opera del fisico americano, ma svela altre incursioni di Feynman nel mondo dell'informatica: dai suoi contributi allo studio dei computer paralleli, alle ricerche sulla teoria dell'informazione digitale e alle nanotecnologie.
Due parole sugli autori di questo libro: Jim Ottaviani è ingegnere, bibliotecario e programmatore, e ha al suo attivo molte altre storie a fumetti sulla storia della scienza; Leland Myrick è un pluripremiato autore e illustratore di graphic novel.
Il romanzo grafico che hanno realizzato racconta la vita di Feynman dalla sua partecipazione al Progetto Manhattan fino alla sua consulenza per individuare, nel 1986, le cause del disastro dello Shuttle Challenger, passando attraverso gli studi, gli amori, la brillante carriera accademica e scientifica, gli incontri con altri grandi scienziati, lo sviluppo dei diagrammi e degli integrali di cammino che portano il suo nome, le ricerche sull'elettrodinamica quantistica che gli valsero il Nobel, le sue brillanti conferenze, l'interesse per la biologia.
La narrazione è appassionante, chiara, divertente, ma non rinuncia al rigore e si addentra con successo in taluni dettagli molto tecnici delle teorie di Feynman: ma senza mai annoiare e senza fare impazzire il lettore. Leggetelo: libri come questo sono eccellenti esempi di divulgazione scientifica.
sabato 15 settembre 2012
Carnevale della Matematica #53 sui Rudi Mathematici
E' ormai universalmente noto che il Carnevale della Matematica è un avvenimento di grande importanza che ogni mese ci riserva piacevoli sorprese. Ma quando a organizzarlo sono gli insigni Rudi Mathematici, bè, allora si può stare tranquilli che qualcosa di straordinario riescono ad architettarti, così da rendere l'appuntamento ancora più solluccheroso.
Per questa edizione numero 53, i Rudi si sono inventati una genialata che ha fatto divertire tutti i partecipanti e i visitatori del Carnevale: hanno piazzato, in corrispondenza dei contributi del mese, delle presunte foto degli autori, avanzando però alcuni dubbi di autenticità delle stesse. Nel mio caso, ad esempio, la foto mi ritrae alla guida di un giallo bolide da rally. Immagine vera o apocrifa? Non se ne parla: vi lascerò il dubbio.
Molti e grandi complimenti ai sommi Rudi Mathematici, e a tutti i contributori.
L'appuntamento è al mese di ottobre, per il quale, credo, non si è ancora fatto avanti un organizzatore: suvvia, fatevi avanti, ospitare il Carnevale è un'esperienza divertentissima e memorabile!
Per questa edizione numero 53, i Rudi si sono inventati una genialata che ha fatto divertire tutti i partecipanti e i visitatori del Carnevale: hanno piazzato, in corrispondenza dei contributi del mese, delle presunte foto degli autori, avanzando però alcuni dubbi di autenticità delle stesse. Nel mio caso, ad esempio, la foto mi ritrae alla guida di un giallo bolide da rally. Immagine vera o apocrifa? Non se ne parla: vi lascerò il dubbio.
Molti e grandi complimenti ai sommi Rudi Mathematici, e a tutti i contributori.
L'appuntamento è al mese di ottobre, per il quale, credo, non si è ancora fatto avanti un organizzatore: suvvia, fatevi avanti, ospitare il Carnevale è un'esperienza divertentissima e memorabile!
domenica 9 settembre 2012
Il teorema della palla pelosa
Ogni tanto capita. Ti alzi dal letto con la sensazione di esserti trasformato non in un enorme insetto immondo, come il povero Gregorio Samsa, ma in una specie di porcospino, o in un gatto dal pelo arruffato appena uscito da un selvaggio duello con un altro gatto.
Ti guardi allo specchio e hai conferma del tuo presentimento: i capelli non vogliono saperne di stare al loro posto, e assomigli più a Barbabarba che a te stesso.
In questi difficili momenti non ti abbattere più del dovuto, e pensa che la matematica può esserti di conforto. In particolare, esiste un teorema che stabilisce l'impossibilità di pettinare perfettamente una sfera: il cosiddetto "teorema della palla pelosa", dimostrato nel 1912 dal matematico olandese Luitzen Egbertus Jan Brouwer (che, ironicamente, almeno stando alle fotografie che si trovano in rete, era parecchio stempiato).
Brouwer è passato alla storia della matematica per avere dimostrato due importanti teoremi (oltre a questo della palla pelosa, il famoso teorema del punto fisso), ma anche alla storia della filosofia matematica per essere stato il vero iniziatore della scuola matematica intuizionistica (secondo la quale la matematica è essenzialmente un insieme di costruzioni mentali).
Tornando al teorema della palla pelosa, una sua enunciazione più rigorosa afferma che, data una ipersfera S a n dimensioni (con n pari oppure uguale a 3), e un campo vettoriale f che associa ad un ogni punto P della ipersfera un vettore n-dimensionale f(P) tangente alla ipersfera stessa nel punto P, esiste almeno un punto Q della ipersfera in cui f(Q) = 0.
Se la ipersfera, per semplicità, viene ridotta ad una innocua sfera a 3 dimensioni, e i vettori tangenti f(P) vengono considerati i "capelli" spuntati sulla superficie della sfera, il teorema dice che ci sarà almeno un punto della sfera privo di capelli, oppure con un capello ritto e sparato in aria.
Per la verità, il teorema non è rigorosamente applicabile al caso della pettinatura dei capelli, perché la nostra testa non è una sfera completamente capelluta (anche se in alcuni casi ci si avvicina a tale condizione): se tuttavia vogliamo stiracchiare il fondamentale risultato di Brouwer, ed applicarlo al lavoro del parrucchiere, il concetto è che non si può pettinare una testa senza creare da qualche parte una chierica o un ciuffo ribelle.
A differenza della sfera, il toro, cioè una superficie a forma di ciambella, è invece perfettamente pettinabile.
Il teorema ha una suggestiva applicazione in meteorologia: se approssimiamo la superficie terrestre a una sfera, e consideriamo la circolazione atmosferica con una funzione che assegna a ogni punto della superficie terrestre il vettore, tangente alla superficie stessa, che indica la direzione del vento, il teorema afferma che esiste almeno un punto della Terra in cui non c'è vento.
Questi punti sono gli "occhi" dei cicloni. In pratica il teorema della palla pelosa applicato alla superficie terrestre ci assicura che in qualche parte del mondo c'è sempre un ciclone in azione (o un anticiclone).
Per la verità, questa conclusione parte dal presupposto di trascurare la componente verticale del "vettore vento", e di considerare solo quella tangente alla superficie: approssimazione accettabile, dato che il diametro terrestre è molto maggiore dello spessore dell'atmosfera.
Il teorema di Brouwer è stato applicato con successo anche ad altri ambiti, come la scienza dei materiali: nel 2007 lo scienziato italiano Francesco Stellacci si è servito del teorema della palla pelosa per ottenere una particolare struttura formata da una catena di nanoparticelle, utilizzabile come speciali nano-fili in dispositivi elettronici.
Ti guardi allo specchio e hai conferma del tuo presentimento: i capelli non vogliono saperne di stare al loro posto, e assomigli più a Barbabarba che a te stesso.
In questi difficili momenti non ti abbattere più del dovuto, e pensa che la matematica può esserti di conforto. In particolare, esiste un teorema che stabilisce l'impossibilità di pettinare perfettamente una sfera: il cosiddetto "teorema della palla pelosa", dimostrato nel 1912 dal matematico olandese Luitzen Egbertus Jan Brouwer (che, ironicamente, almeno stando alle fotografie che si trovano in rete, era parecchio stempiato).
Brouwer è passato alla storia della matematica per avere dimostrato due importanti teoremi (oltre a questo della palla pelosa, il famoso teorema del punto fisso), ma anche alla storia della filosofia matematica per essere stato il vero iniziatore della scuola matematica intuizionistica (secondo la quale la matematica è essenzialmente un insieme di costruzioni mentali).
Tornando al teorema della palla pelosa, una sua enunciazione più rigorosa afferma che, data una ipersfera S a n dimensioni (con n pari oppure uguale a 3), e un campo vettoriale f che associa ad un ogni punto P della ipersfera un vettore n-dimensionale f(P) tangente alla ipersfera stessa nel punto P, esiste almeno un punto Q della ipersfera in cui f(Q) = 0.
Se la ipersfera, per semplicità, viene ridotta ad una innocua sfera a 3 dimensioni, e i vettori tangenti f(P) vengono considerati i "capelli" spuntati sulla superficie della sfera, il teorema dice che ci sarà almeno un punto della sfera privo di capelli, oppure con un capello ritto e sparato in aria.
Per la verità, il teorema non è rigorosamente applicabile al caso della pettinatura dei capelli, perché la nostra testa non è una sfera completamente capelluta (anche se in alcuni casi ci si avvicina a tale condizione): se tuttavia vogliamo stiracchiare il fondamentale risultato di Brouwer, ed applicarlo al lavoro del parrucchiere, il concetto è che non si può pettinare una testa senza creare da qualche parte una chierica o un ciuffo ribelle.
A differenza della sfera, il toro, cioè una superficie a forma di ciambella, è invece perfettamente pettinabile.
Il teorema ha una suggestiva applicazione in meteorologia: se approssimiamo la superficie terrestre a una sfera, e consideriamo la circolazione atmosferica con una funzione che assegna a ogni punto della superficie terrestre il vettore, tangente alla superficie stessa, che indica la direzione del vento, il teorema afferma che esiste almeno un punto della Terra in cui non c'è vento.
Questi punti sono gli "occhi" dei cicloni. In pratica il teorema della palla pelosa applicato alla superficie terrestre ci assicura che in qualche parte del mondo c'è sempre un ciclone in azione (o un anticiclone).
Per la verità, questa conclusione parte dal presupposto di trascurare la componente verticale del "vettore vento", e di considerare solo quella tangente alla superficie: approssimazione accettabile, dato che il diametro terrestre è molto maggiore dello spessore dell'atmosfera.
Il teorema di Brouwer è stato applicato con successo anche ad altri ambiti, come la scienza dei materiali: nel 2007 lo scienziato italiano Francesco Stellacci si è servito del teorema della palla pelosa per ottenere una particolare struttura formata da una catena di nanoparticelle, utilizzabile come speciali nano-fili in dispositivi elettronici.
sabato 1 settembre 2012
Parole informatiche: implementare
Chi, come il sottoscritto, ha fatto studi informatici e lavora ogni giorno in questo campo trova naturale pensare al termine "implementare" come a un sinonimo di "applicare", "realizzare", "attuare", "mettere in pratica", naturalmente utilizzato in un contesto informatico.
Hanno quindi un senso e sono corrette frasi del tipo "ho implementato in Java l'algoritmo di Dijkstra", oppure "in un linguaggio di programmazione orientato agli oggetti, una certa classe implementa una certa interfaccia", o ancora "la nostra applicazione implementa le funzionalità richieste dal cliente".
La parola "implementare", di origine inglese, si è adattata molto bene alla nostra lingua, molto più di altri anglismi la cui italianizzazione suona come innaturale e forzata: credo che il segreto del suo successo derivi dal fatto che il verbo inglese to implement deriva dal sostantivo implement (attrezzo, utensile), che a sua volta discende dal verbo latino implěo (realizzare, compiere).
La radice latina ha probabilmente reso più familiare e digeribile questa parola, che infatti si sente ormai sulla bocca di tutti, non soltanto nell'ambito informatico o elettronico, ma anche nel linguaggio giuridico e politico ("implementare un accordo, un contratto").
Purtroppo, però, mi capita sempre più spesso di sentire adoperare il termine "implementare" in un'accezione errata, e cioè nel senso di "aggiungere nuove funzionalità", "aumentare", "incrementare", e così via.
Ho pensato che questo equivoco possa derivare dalla vaga somiglianza tra "implementare" e "amplificare", o forse dall'assonanza con la parola "riempire". Chissà.
In ogni caso questo utilizzo del verbo è improprio, e alle orecchie delicate di un informatico può a volte suonare davvero sgradevole...
Hanno quindi un senso e sono corrette frasi del tipo "ho implementato in Java l'algoritmo di Dijkstra", oppure "in un linguaggio di programmazione orientato agli oggetti, una certa classe implementa una certa interfaccia", o ancora "la nostra applicazione implementa le funzionalità richieste dal cliente".
La parola "implementare", di origine inglese, si è adattata molto bene alla nostra lingua, molto più di altri anglismi la cui italianizzazione suona come innaturale e forzata: credo che il segreto del suo successo derivi dal fatto che il verbo inglese to implement deriva dal sostantivo implement (attrezzo, utensile), che a sua volta discende dal verbo latino implěo (realizzare, compiere).
La radice latina ha probabilmente reso più familiare e digeribile questa parola, che infatti si sente ormai sulla bocca di tutti, non soltanto nell'ambito informatico o elettronico, ma anche nel linguaggio giuridico e politico ("implementare un accordo, un contratto").
Purtroppo, però, mi capita sempre più spesso di sentire adoperare il termine "implementare" in un'accezione errata, e cioè nel senso di "aggiungere nuove funzionalità", "aumentare", "incrementare", e così via.
Ho pensato che questo equivoco possa derivare dalla vaga somiglianza tra "implementare" e "amplificare", o forse dall'assonanza con la parola "riempire". Chissà.
In ogni caso questo utilizzo del verbo è improprio, e alle orecchie delicate di un informatico può a volte suonare davvero sgradevole...
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