Non c’è due senza tre. Dopo le interviste ai Rudi Mathematici e a Paola Zuccolotto, ho pensato di porre qualche domanda a una delle più note e premiate giornaliste scientifiche italiane,
Silvia Bencivelli.
Per quei pochi che non la conoscono ancora, Silvia si è laureata in medicina e chirurgia all’Università di Pisa e ha frequentato il Master in comunicazione della scienza alla Sissa di Trieste. Dal 2004 scrive di scienza per importanti giornali e riviste (tra cui “la Repubblica”, “Le Scienze”, “La Stampa”, “Wired.it”, “il manifesto”). A lungo ha lavorato nella redazione di Radio3 Scienza, conducendo spesso la trasmissione (come quella volta che ha voluto abbassare il livello del programma intervistando l'autore di questo blog). Ha collaborato con Rai3, con varie case editrici e agenzie di comunicazione. Insegna giornalismo scientifico multimediale in diversi Master. Ha girato vari cortometraggi e il pluripremiato documentario “Segna con me”, e ha scritto diversi ottimi libri, tra i quali “Perché ci piace la musica” (Sironi, 2007), “Cosa intendi per domenica” (LiberAria, 2013), “Comunicare la scienza” (Carocci, 2013).
A Silvia Bencivelli ho voluto porre alcune domande sul tema del giornalismo scientifico in Italia, sui canali attraverso i quali i giornalisti possono parlare di scienza e sul triste tema della scarsa considerazione che questo mestiere riceve in Italia e anche all’estero.
Ringrazio di cuore Silvia per la disponibilità e per il tempo che ha accettato di dedicarmi.
Silvia, che cosa fa un giornalista scientifico?
Un giornalista scientifico può essere tante cose diverse. In prima battuta è un giornalista con una specializzazione scientifica, dopo di che ognuno di noi interpreta questo mestiere a modo suo.
In Italia il lavoro di giornalista scientifico non è molto riconosciuto. E’ vero che questo comporta che articoli scientifici vengano spesso scritti da giornalisti non specializzati. In compenso, però, abbiamo una maggiore libertà di interpretare il nostro mestiere.
Siamo, per così dire, una sottospecie di giornalista culturale. Maneggiamo cultura, perché la scienza è una delle forme di cultura del nostro mondo, alla base di molti sistemi di conoscenza. La maneggiamo nel senso che raccontiamo notizie riferendoci ai contesti. Per noi sono fondamentali la cultura sedimentata, la lettura, l’incontro con l’altro, il dialogo. Altrimenti diventeremmo “newsaroli”, cioè gente che trascrive news e basta.
Da questa considerazione nasce una differenza fondamentale: appartenendo a una strana sottospecie di giornalista culturale, io mi sento simile a un critico musicale. Come un buon critico musicale dovrebbe conoscere bene la musica e studiarla di continuo, e dovrebbe anche frequentare i musicisti, così un giornalista scientifico dovrebbe avere conoscenze scientifiche e contatti con gli scienziati. Non tutti i miei colleghi, però, la pensano così: alcuni interpretano il loro ruolo un po’ come quello di un giornalista politico: secondo loro sì, un po’ di cultura scientifica va bene, ma non più di questo, e la contiguità con gli scienziati non conta poi molto.
Insomma, che cosa sia veramente un giornalista scientifico è una domanda irrisolta, e si discute ancora molto su questo tema.
Che differenza c’è tra un giornalista scientifico e un comunicatore della scienza?
Il giornalista scientifico è innanzitutto un giornalista. Quindi cerca le notizie, le verifica e le scrive. Indipendentemente dal genere di notizia, ci sono delle regole universali ben note a chi fa questo mestiere: si attacca in un certo modo, si segue la regola delle cinque W, si verificano le informazioni sentendo due o tre fonti, e così via. Il comunicatore della scienza, invece, è qualcuno che parla al pubblico per conto di una istituzione scientifica, di un editore, di un Comune o anche per conto proprio.
Io mi sento più giornalista scientifica, ma in realtà faccio anche molta comunicazione della scienza in senso lato, e mi diverto moltissimo anche in questo.
In Italia si discute ancora molto di queste differenze, anche perché nel nostro Paese non c’è una grande tradizione in questo ambito. Se fossimo in Inghilterra, non mi avresti posto queste domande, perché sarebbe stato chiaro fin da subito chi è e che cosa fa un giornalista scientifico (fermo restando che un freelance si può interpretare in più modi, anche nel mondo anglosassone). Da noi le definizioni sono più vaghe: qualcuno di noi si presenta come
science writer (come nella nostra associazione di giornalisti scientifici italiani SWIM, “Science Writers in Italy”). In ogni caso questa vaghezza dà a ognuno l’opportunità di trovare la propria personale definizione.
Quali capacità deve avere un giornalista scientifico?
Ho l’impressione che per molti neolaureati in materie scientifiche il giornalista scientifico venga percepito come una figura dai tratti mitologici. Mi scrivono giovani molto entusiasti e gentili dicendo cose del tipo: “Mi piace molto la scienza, ma soprattutto mi piace scrivere, quindi ho pensato di fare il giornalista scientifico”. No, se ti piace scrivere non fare il giornalista! Il comunicatore forse sì, ma questo nessuno ti impedisce di farlo se stai magari facendo il tuo dottorato. Ho molti amici e colleghi che in qualche modo continuano a occuparsi di ricerca, nel contempo fanno anche i comunicatori. Invece il mio è un vero e proprio mestiere: se uno sceglie di farlo, deve studiare per farlo, e poi lo fa, esattamente come quando si sceglie di fare un qualsiasi lavoro che comporta studio e impegno, come l'infermiere o il maestro o l'architetto.
Per fare il il giornalista scientifico bisogna essere soprattutto molto versatili. Il che non significa adattarsi a essere pagati poco, ma vendersi bene in ambiti anche distanti da quelli che si immaginano all’inizio. Non avrebbe senso, ad esempio, cominciare a lavorare dicendo di voler fare il giornalista della carta stampata. Se uno inizia con questi presupposti, be’, auguri!
Ecco perché dico che non basta saper scrivere per fare il giornalista. A me piace moltissimo scrivere, e anche quando scrivo un articolo semplice ci metto tutta la mia passione per la scrittura. Però questo gusto non ce l’hanno tutti, e soprattutto non è la dote principale che si richiede a un giornalista scientifico.
Noi dobbiamo cercare le notizie, saperle fiutare, saperle verificare, creare il contesto. Ci si trova a fare cose diversissime che non avresti mai pensato di fare, e scopri anche che sono spesso cose molto divertenti. Occorre essere molto umili all’inizio. Di solito i presuntuosi vengono “segati” in fretta.
Consiglieresti il tuo mestiere a un giovane laureato?
Dipende molto dal giovane. Prima di tutto è ovviamente un mestiere che non tutti sarebbero in grado di fare, ma ciò vale per tutti i mestieri, e poi non è questo il punto. La questione centrale è che in questo periodo non c’è mercato. In tanti mi scrivono per chiedere consigli su questo mestiere. Quando ragazzi molto appassionati, ad esempio i miei studenti del Master, mi chiedono suggerimenti (e nota che si tratta spesso di ragazzi molto bravi, che in mondo normale avrebbero già cominciato a farsi strada), dico sempre che negli ultimi due o tre anni, o anche di più, il mercato si è contratto moltissimo. Una persona come me, che dieci anni fa faceva tre cose, oggi per campare ne deve fare dieci: anche perché sono più grande, ho qualche esigenza in più e forse anche qualche paura in più per il futuro.
Dieci anni fa, quando ho cominciato a lavorare, in edicola c’erano molte più riviste di scienza di oggi. A parte
Le Scienze, che è forse l’unico caso di rivista scientifica italiana che mantiene pressoché costante il numero delle copie vendute, tutte le altre testate hanno perso tantissimo, e in molti casi hanno dovuto chiudere. Dieci anni fa acquistavamo quasi tutti un quotidiano al giorno, mentre oggi i miei coetanei lo prendono due volte alla settimana nei casi migliori, mentre i ragazzi più giovani hanno smesso, o forse non hanno mai cominciato.
E questo vale anche per i periodici. Perché? Perché anche le catapulte a un certo punto sono diventate obsolete. Ogni tecnologia viene prima o poi superata da tecnologie più avanzate, e oggi, piaccia o no, la carta sta passando. E questo accade senza che nessuno in questi ultimi dieci anni abbia messo a punto un modello sensato di marketing dell’informazione, che garantisca la qualità dell’informazione stessa e la sopravvivenza di chi la fa.
Certo, in questa contrazione delle vendite delle testate scientifiche c’entra molto il web. C’è stato un grande entusiasmo intorno al web, anche giustificato, ma forse non si è studiato abbastanza il fenomeno per capire cosa sarebbe accaduto ai giornali con la diffusione di internet. I giornali hanno cominciato a proporre prodotti alternativi sulla rete, finendo col farsi quasi concorrenza da soli: una differenziazione dei prodotti, questa, alla quale non ha corrisposto un allargamento del mercato.
Pensa che certi quotidiani nazionali arrivano a pagare una news online anche soltanto 30 euro lordi. Capisci bene come lavorare un intero pomeriggio per 30 euri lordi non solo faccia passare la voglia di lavorare, ma faccia subentrare la sensazione di essere complice del fenomeno generale di svalutazione del mestiere di giornalista scientifico.
Accettare di essere pagati così poco rappresenta un’offesa nei confronti dei colleghi, ma anche nei confronti del lettore, che crede di aver letto una news frutto di lunghe ricerche e di studi seri e accurati, quando invece, dati i pochi soldi con cui è stata pagata, è stata in realtà scritta in mezz’ora, magari utilizzando i comunicati stampa come unica fonte.
Stai dicendo che la scarsa considerazione del mestiere dei giornalisti scientifici si riflette alla fine in un abbassamento della qualità del loro lavoro?
Certamente, purtroppo è un fenomeno che avviene già.
In rete si vedono ormai spesso pezzi molto preoccupanti, scritti da persone molto giovani, tipicamente intorno ai 25 anni, che hanno scavalcato professionisti più vecchi di 10-15 anni: bada bene che sto parlando di quarantenni, non di pensionati che cumulano la pensione con i compensi delle loro collaborazioni.
Il quarantenne avrebbe scritto la news per 80 euro, mentre il venticinquenne accetta di scriverla per 15 euro. Con quali conseguenze? Il venticinquenne si illude di aver fatto una scelta giusta, che gli consentirà di fare esperienza e di crescere. In realtà non sa, o finge di non sapere, che da quei 15 euro non passerà mai a 80 euro, e la sua scelta contribuisce alla fine ad abbassare l’asticella anche per tutti gli altri. Da quel momento quel tipo di lavoro varrà 15 euro, o al massimo 20 o 30, per tutti, e non risalirà mai più a 80.
Secondo te la situazione è destinata a peggiorare in futuro, o vedi segni di miglioramento?
Io non riesco mai a essere troppo pessimista, ed è forse ciò che mi salva. Di certo serve un colpo di reni. La situazione non cambia se non si fa qualcosa, a partire da noi che siamo un po’ più “grandicelli”, ma coinvolgendo, con tutto l’affetto e la comprensione, anche le giovani generazioni che si stanno affacciando ora sul mercato.
Ogni tanto ho anch’io il sospetto che questo colpo di reni potrebbe non essere efficace nel contesto di un mercato che non ha più soldi. Consultando i bilanci di case editrici di giornali e libri, anche dal nome glorioso, si vede che stanno davvero perdendo quota. E non parliamo delle televisioni.
Il mondo attuale è molto più complesso di quello di dieci anni fa. Serve versatilità e soprattutto orgoglio: occorre rendersi conto dell’altissima responsabilità sociale del mestiere di giornalista scientifico, e soltanto in questo modo di può pensare di difendere noi stessi, il mercato e il pubblico. Orgoglio non significa credere di fare chissà cosa, o essere velleitari: significa pensare che scriviamo non perché ci piace scrivere, ma perché il nostro mestiere ci pone all’interno di un importante dialogo pubblico, e dobbiamo assolvere il nostro compito con con responsabilità e buon senso.
Non è il gusto personale che fa del nostro mestiere un bellissimo mestiere: è la responsabilità sociale, come quella che hanno un chirurgo, un insegnante, un autista di autobus. Sei importante per il mondo, fai girare un grande ingranaggio della società.
Detto questo, non so cosa ci riserverà il futuro. A proposito di svalutazione della nostra professione, io vedo un altro pericolo: la diffusione incontrollata di “panzane” scientifiche, che il lettore un po’ meno preparato fatica a distinguere dalle notizie vere, quelle scritte da giornalisti che sanno fare il proprio mestiere. Secondo me ci vorrà impegno da parte delle istituzioni scientifiche e delle autorità statali per investire sulla comunicazione diretta al pubblico. Lo dico contro il mio interesse perché in fin dei conti io sono un intermediario. Ma se gli intermediari vanno scomparendo, si devono rafforzare i meccanismi di interazione diretta. Io non vorrei scomparire: ma se in qualche modo mi trasformerò, farò dell’altro, o emigrerò, servirà una qualche forma di rimpiazzo.
A proposito di emigrazione, oggi a chi mi chiede consigli sulla mia professione dico una cosa che anni fa non dicevo: attrezzarsi a guardare fuori dall’Italia, come in tutti gli altri settori.
Molti mi mandano messaggi di questo tenore: “Sto prendendo un dottorato in biologia, ma siccome non ci sono prospettive nel campo della ricerca, e mi piace scrivere, vorrei fare il giornalista scientifico”. Io rispondo sostenendo che offre molta più sicurezza economica una borsa post-doc da tre anni che fare il giornalista scientifico.
Senza contare che quelli come me una frase di quel tipo la prendono molto male, perché il nostro mestiere non è una strada di ripiego.
Silvia, so che hai lavorato anche all’estero: anche fuori dall’Italia il giornalista scientifico è un mestiere sottovalutato?
Con grande sollievo ti dico di sì: anche all’estero il nostro lavoro è spesso svalutato. E’ vero che nei paesi di tradizione anglosassone la figura del giornalista scientifico è in generale più rispettata: però sto aspettando da una vita pagamenti anche dall’estero, ho fatto dei servizi per radio estere senza compenso (sperando che il successivo sarebbe stato pagato, ma così non è stato).
Forse in Italia, rispetto ad altri paesi europei, c’è una tendenza un po’ più cialtrona, il che accade anche in molti altri settori. Inoltre il nostro è un mestiere in cui, per così dire, ognuno si autocertifica, e spesso succede che giornalisti poco visibili carichino il proprio curriculum fino a descriversi come geni del giornalismo scientifico internazionale. All’estero questa tecnica avrebbe meno successo. Spesso è una cialtronaggine bipartisan, cioè persone non particolarmente brillanti si trovano spesso a fare lavori di un certo rilievo perché, come si dice, sono amici degli amici.
Di sicuro, comunque, il grande calo della carta stampata non è un fenomeno solo italiano.
Nel tuo libro “Comunicare la scienza” hai esplorato i diversi canali attraverso i quali si può fare comunicazione scientifica. Tra i canali che tu hai sperimentato personalmente nella tua carriera di giornalista scientifica, ce n’è uno preferito, che ti sta particolarmente a cuore?
Il primo amore è stata la carta stampata. Scrivendo sui giornali ho scoperto che ci si può divertire lavorando. Attenzione: divertirsi per me significa anche studiare, leggere, incuriosirsi. E’ una scoperta che ho fatto grazie a Romeo Bassoli, con cui scrivevo sui quotidiani. La carta stampata non l’ho mai lasciata e ora ci sto tornando con grande divertimento: mi piacerebbe poterlo dire a Romeo.
Ho fatto tanta radio, che è un mezzo al quale sono molto affezionata, anche se oggi lo pratico molto poco. Molti mi dicono che è la cosa che mi riesce meglio. Alla radio ho imparato a improvvisare durante le interviste, abilità questa che utilizzo moltissimo negli incontri dal vivo con gli scienziati e nelle moderazioni. A volte mi imbatto in scienziati un po’ imbranati a fare le relazioni in pubblico: allora io faccio delle lunghe interviste, e la cosa riesce spesso molto bene.
Facendo la radio si prende dimestichezza con certe strutture del pensiero, con l’idea di ritmo, di dialogo per conto d’altri: perché quando intervisti qualcuno, in realtà conduci con l’intervistato un dialogo non per conto tuo, ma per conto del pubblico che ti ascolta, e devi dimenticarti quello che sai.
Con la televisione, invcece, non è scoccata la stessa scintilla. E per quanto riguarda i musei, be’, sto iniziando adesso, e sembra anche una cosa interessante. Anche se non posso dire che sia il linguaggio a me più congeniale.
Quindi, se dovessi stilare una mia personale graduatoria di preferenza, direi: la carta stampata e la radio in testa, a pari merito, e sul podio al terzo posto gli eventi dal vivo, come interviste e moderazioni.
Tieni conto che questi eventi dal vivo rappresentano uno dei settori in cui si è fatto più sentire il calo dei compensi. Questo nonostante il fatto che le persone che sanno fare quel lavoro non siano poi molte, e tuttora ci chiamano perché ci conoscono e sanno che lo sappiamo fare. Ci offrono spesso compensi che sono la metà di quelli di due anni fa, e a volte ci propongono di farlo gratis.
Sei mesi fa l’ho scritto anche sul blog: “Per ragioni di sopravvivenza e di etica professionale,
non posso accettare proposte di lavoro gratis”. A nessuno salterebbe mai in mente di chiedere a un idraulico di venire a ripararci il lavandino gratis. Il guaio è che il nostro è un lavoro intellettuale, quindi impalpabile, e a volte non ne viene compreso il valore. Eppure per fare il mio lavoro ho studiato molto, leggo di continuo, viaggio, compro libri.
Per concludere l’intervista, mi dici un tuo progetto che stai coltivando e al quale tieni molto?
Di solito non ho progetti concreti a lungo periodo: se mi chiedi cosa farò tra due o cinque anni, non ne ho proprio idea. Forse il mio desiderio più grande sarebbe poter fare questo lavoro per tutta la vita, ma pagata di più, e con più tranquillità.
Però posso dirti due desideri segreti, in maniera criptata.
Il primo riguarda una cosa che vorrei fare all’estero, che comporterebbe per me il passaggio dall’essere
mid-career al diventare grandi.
Il secondo è un libro che sto cercando di completare da molto tempo e che ogni volta, chissà perché, inciampa in problemi stranissimi che lo bloccano. Altri libri hanno già visto la luce, e altri ancora la vedranno a breve. Questo libro qui, invece, si è piantato ripetutamente e prima o poi affronterò la cosa con tutta la mia testardaggine, perché sono convinta che possa uscire un gran bel lavoro.