Bene. Adesso la sfida si fa più difficile: pensate al nulla. Impossibile?
Che cos’è il nulla? Se posso pensarlo, non è già qualcosa? Com’è possibile pensare qualcosa che non è?
In matematica, il niente è davvero qualcosa e corrisponde al numero zero. Un numero sospeso tra l’esistenza e la non esistenza, alter ego dell’infinito e, al pari di questo, paradossale e sconvolgente.
Lo zero fu inventato tre volte: prima dai Sumeri, forse già due millenni prima di Cristo, poi dai Maya e infine dagli Indiani.
Furono questi ultimi, intorno al VII secolo d.C., a utilizzarlo per primi non soltanto come mero segnaposto per indicare una cifra nulla in un numero costruito mediante un sistema posizionale, ma come numero vero e proprio.
Il grande matematico Brahmagupta fu il primo a studiare come lo zero si comportava una volta messo insieme agli altri numeri. Si accorse così che è un numero del tutto speciale: per esempio non sortisce effetti se un numero qualsiasi viene sommato a lui, mentre fa diventare uguale a lui ogni numero che osasse moltiplicarsi per lui.
In Europa lo zero (e nel suo complesso la numerazione posizionale) arrivò molto tardi, nel Duecento, grazie al pisano Fibonacci che durante i suoi viaggi in Oriente lo aveva appreso dagli Arabi (questi, a loro volta, lo avevano imparato dagli Indiani).
Gianni Rodari ha dedicato allo zero la poesia "Il trionfo dello zero", tratta da "Filastrocche in cielo e in terra" (1960).
Nella filastrocca, Rodari rappresenta in modo narrativamente molto gustoso anche il concetto di sistema di numerazione posizionale, intuito già sulle rive del Tigri e dell'Eufrate e, duemila anni dopo, al di là dell'Oceano Atlantico, prima di essere riscoperto in India.
L'idea è che ogni cifra assume un valore diverso a seconda della posizione che occupa nel numero: lo zero, per esempio, che da solo gioca il ruolo del numero immediatamente precedente all'unità e quindi del valore nullo, può partecipare (come qualsiasi altra cifra) alla costruzione di numeri più complessi, per esempio il 10 che si compone di una decina e nessuna unità.
Non è un caso che questa filastrocca sia una delle più sfruttate dagli insegnanti della scuola primaria per la sua felice combinazione tra elemento poetico e significato aritmetico.
C'era una volta
un povero Zero
tondo come un o,
tanto buono ma però
contava proprio zero
e nessuno lo voleva in compagnia
per non buttarsi via.
Una volta, per caso,
trovò il numero Uno
di cattivo umore perché
non riusciva a contare
fino a tre.
Vedendolo così nero
il piccolo Zero
si fece coraggio,
sulla sua macchina
gli offerse un passaggio,
e schiacciò l'acceleratore,
fiero assai dell'onore
di avere a bordo
un simile personaggio.
D'un tratto chi si vede
fermo sul marciapiede?
Il signor Tre che si leva il cappello
e fa un inchino
fino al tombino...
e poi, per Giove,
il Sette, l'Otto, il Nove
che fanno lo stesso.
Ma cosa era successo?
Che l'Uno e lo Zero,
seduti vicini,
uno qua, l'altro là,
formavano un gran Dieci:
nientemeno, un'autorità!
Da quel giorno lo Zero
fu molto rispettato,
anzi da tutti i numeri
ricercato e corteggiato:
gli cedevano la destra
con zelo e premura,
(di tenerlo a sinistra
avevano paura),
lo invitavano a cena,
gli pagavano il cinemà,
per il piccolo Zero
fu la felicità.
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