martedì 16 ottobre 2012

Il grande quadrato di Perec

Nel mio vecchio post "La matematica di Ummagumma (Parte 2)" citavo il celebre romanzo "La vita istruzioni per l'uso" di Georges Perec, costruito sopra un quadrato greco-latino 10x10.
Riprendo l'argomento dopo più di un anno e mezzo perché recentemente ho ripreso in mano il libro, e leggendo le sue pagine l'urgenza di fare chiarezza sui suoi presupposti combinatori si faceva sempre più impellente. Sapevo che Perec stesso aveva spiegato le basi matematiche del romanzo nei suoi appunti di lavoro, e in effetti il libro "Specie di spazi", edito da Bollati Boringhieri, raccoglie, tra il resto, anche queste note; ma dopo avere scovato questo volume, mi sono imbattuto anche in un sito (francese, ovviamente) che mi ha ulteriormente aiutato a soddisfare le mie curiosità.
Ma procediamo un passo alla volta.
Perec pubblicò il libro nel 1978, dedicandolo alla memoria di Raymond Queneau. Italo Calvino apprezzò grandemente l'opera di Perec, considerandola come un punto di svolta nella storia del romanzo, e indicandola anzi come notevole esempio di "iperromanzo". Anche molti altri autori italiani accolsero il romanzo di Perec come un vero capolavoro.

Come già ricordavo nel post dell'anno scorso, il libro è costituito da 99 capitoli, ognuno dei quali rappresenta l'istantanea di una stanza di un condominio di dieci piani. Perec stesso scrisse:
Immagino uno stabile parigino cui sia stata tolta la facciata... in modo che, dal pianterreno alle soffitte, tutte le stanze che si trovano sulla parte anteriore dell'edificio siano immediatamente e simultaneamente visibili.

Perec descrive ogni stanza in modo estremamente particolareggiato, soffermandosi spesso su dettagli legati ai suoi inquilini di oggi e di ieri, alle loro storie, alle loro passioni, alle loro vite.
Quella che può apparire, all'inizio della lettura, come maniacale pedanteria, diviene ben presto uno stile necessario, piacevole, irrinunciabile, funzionale al graduale dipanarsi della complessa trama.


Ma non temete: non vi parlerò dell'intricato puzzle dei personaggi e delle loro storie, un po' per non guastarvi la sorpresa e un po' perché non basterebbero dieci post per dare una pallida idea della trama.

Riprenderò invece il tema del quadrato greco-latino, che nel vecchio post avevo soltanto accennato: chi volesse intraprendere la lettura di questa monumentale opera senza trascurare i suoi aspetti matematici troverà probabilmente molto utile il sito francese e le chiavi di lettura che mi accingo a fornire.

Nella pagina dedicata ai contraintes (vincoli) sono riportati i 42 elenchi di 10 elementi ciascuno che Perec compose per utilizzarli come "vincoli narrativi". Come potete vedere, ci sono due elenchi di autori che possono essere citati (citation 1 e citation 2), un elenco di epoche (époque), uno di animali (animaux), uno di sentimenti (sentiments), e così via.  In ognuno degli elenchi gli elementi sono identificati dalle lettere a, b, c, ..., j.
Ogni elenco è contrassegnato da un codice, riportato nella colonna id e formato da una lettera (A oppure B oppure C) e da una cifra (da 0 a 9). Se trascuriamo la differenza tra lettere maiuscole e minuscole, gli elenchi risultano riuniti in 21 coppie: ad esempio, i primi due elenchi, rispettivamente contenenti posizioni (position) e attività (activité), sono accoppiati e contrassegnati dal codice 1A/1a.

E' a questo punto che entra in scena il quadrato greco-latino 10x10: esso è rappresentato nella pagina l'immeuble, e le sue caselle corrispondono alle stanze del condominio parigino (e quindi ai capitoli del romanzo).
Come i miei lettori probabilmente già sanno, un quadrato greco-latino è una scacchiera quadrata che contiene, in ogni casella, una coppia di simboli, in modo tale che ogni simbolo compaia esattamente una volta in ogni riga e in ogni colonna, e che ogni coppia compaia esattamente una volta nell'intera scacchiera.
Originariamente era consuetudine usare coppie formate da una lettera greca e una lettera latina, da cui il nome di questo oggetto matematico.
Esistono quadrati greco-latini di lato n per ogni n maggiore di 2 e diverso da 6. Quello che Perec impiegò è descritto dallo stesso scrittore, in "Specie di spazi, come un "bi-quadrato latino ortogonale d'ordine 10 (quello di cui Eulero congetturò la non esistenza, ma che fu scoperto nel 1960 da Bose, Parker e Shrikhande)."

Ogni casella del quadrato greco-latino 10x10 corrisponde ad una delle stanze del condominio, e quindi a uno dei capitoli del romanzo.
Ora, per ciascuna delle coppie di elenchi definite sopra (ad esempio l'elenco di posizioni e quello di attività), Perec si servì di questo quadrato latino per assegnare ad ogni stanza (e quindi ad ogni capitolo) una coppia di valori tra quelli ammessi dagli elenchi.
Ad esempio, consideriamo la casella associata al capitolo 58, intitolato Réol,1: se vi clicchiamo sopra, troviamo il dettaglio relativo a questo capitolo, e scopriamo che il quadrato ha stabilito "inginocchiato" (agenouillé) come posizione, e "leggere, scrivere" (lire, écrire) come attività.
Ecco allora che il capitolo 12 del libro contiene,in effetti, riferimenti all'essere inginocchiato e alle attività del leggere e dello scrivere:
"Olivier Gratiolet è seduto davanti a un tavolino pieghevole coperto da un drappo verde, sta leggendo. La figlia Isabelle, che ha tredici anni, è inginocchiata sul pavimento di legno..."

Lo stesso procedimento va ripetuto per tutte le altre coppie di elenchi, così da riempire le caselle del quadrato greco-latino con coppie di valori estratti dagli elenchi predefiniti e utilizzarle poi nei rispettivi capitoli come vincoli narrativi.
Perec ha allestito il suo enorme puzzle narrativo vincolando la scrittura tramite questo vertiginoso macchinario combinatorio, studiato in modo tale da distribuire i vincoli in modo equilibrato.
Ho descritto il funzionamento solo in superficie: studiando più a fondo la macchina di Perec si scoprono altre particolarità, eccezioni e raffinatezze che non potrebbero essere descritte in queste poche righe.

Anche il modo in cui i capitoli del libro sono distribuiti sulle caselle del quadrato 10x10 non è casuale, e costituisce un ulteriore vincolo: se guardate ancora la pagina l'immeuble, vi accorgete che si passa sempre da un capitolo al successivo compiendo una spostamento che nel gioco degli scacchi corrisponde la mossa del cavallo (due caselle in avanti e una a lato).
La ricerca di un percorso che visita tutte le caselle della matrice, ciascuna una e una sola volta, utilizzando ad ogni passo la mossa del cavallo, è un problema classico di topologia, noto come problema del "giro di cavallo", che di fatto è un caso particolare del problema del cammino hamiltoniano.
Perec ha utilizzato in questo caso una delle innumerevoli soluzioni esistenti su una scacchiera 10x10, ma ha commesso (volutamente o no?) un errore nel passaggio dalla casella 65 alla casella 66, come potete facilmente constatare nella pagina l'immeuble.
In questa pagina trovate una possibile correzione al giro di cavallo di Perec.

Con queste poche note ho soltanto scalfito la superficie dell'intricato mondo combinatorio di Perec.
Non vorrei che queste considerazioni sugli aspetti matematici del romanzo fossero prese come unica o principale chiave di lettura dell'opera di Perec, che rimane, principalmente, un'opera letteraria di altissimo livello.  I numerosi appigli matematici non fanno del romanzo di Perec un arido puzzle senza anima: al contrario rendono ancora più affascinante ed enigmatica un'opera che viene considerata tra i massimi capolavori del Novecento.

domenica 14 ottobre 2012

Carnevale della Matematica #54 sul Post


E' giunto oggi all'edizione numero 54 il glorioso Carnevale della Matematica, e quando l'evento viene ospitato dal suo stesso creatore, Maurizio .mau. Codogno, si tratta sempre di un avvenimento di particolare importanza.
Com'è ormai consueto, anche questa edizione si presenta ricca di interessanti contributi.
Mr. Palomar ha partecipato con tre post: quello a tema dedicato al paradosso dei corvi e due fuori tema, dedicati rispettivamente alla costruzione della scala pitagorica e al termine informatico "libreria".
Complimenti a tutti i partecipanti e al "grande raccoglitore" .mau.!
La prossima edizione del Carnevale della Matematica sarà ospitata da MaddMaths! e, per ora, non è stato stabilito un tema.
A proposito di Carnevali, ricordo a tutti di segnalare, entro giovedì 18, i vostri contributi per il Carnevale dei Libri di Scienza, che questo mese sarà ospitato da BiblioBredaBlog con l'interessante tema "Le scienze nella letteratura".
Buoni Carnevali a tutti!

mercoledì 10 ottobre 2012

Corvi neri, mele rosse


Nel corso dei secoli, i filosofi della scienza hanno a lungo dibattuto sulla questione se il metodo scientifico sia fondato sulla deduzione o sul’induzione. Un ragionamento deduttivo ricava conclusioni particolari partendo da una legge universale. Aristotele sostenne il ruolo fondamentale della deduzione nel pensiero scientifico, e identificò nel sillogismo (un esempio è il classico “Tutti gli uomini sono mortali; Socrate è un uomo; dunque Socrate è mortale”) lo strumento deduttivo per eccellenza.
Con l’avvento della scienza moderna, da Galileo in poi, metodo scientifico divenne sinonimo di metodo sperimentale, e accanto al ragionamento deduttivo acquistò grande importanza l’approccio induttivo.
Al contrario della deduzione, l’induzione ricava conclusioni universali a partire da verità particolari.  In altre parole, l'induzione porta a generalizzare osservazioni particolari.   
Tutti noi facciamo induzioni, continuamente, senza rendercene conto: ad esempio usciamo di casa senza temere per la nostra incolumità, implicitamente inducendo da precedenti esperienze che l’asfalto sosterrà il nostro peso, che il sole non ci ucciderà con il suo calore, che l’aria sarà respirabile, e così via. 
Nell’ambito scientifico, se un fisico osserva che una certa proprietà vale per una certa particella, dopo un certo numero di conferme sperimentali, potrebbe indurre che la proprietà vale per tutti le particelle di quel tipo esistenti nell’universo.

Ma tutti noi sappiamo che generalizzare non porta sempre a conclusioni veritiere. Vediamo una mela rossa, o anche una cassa strapiena di molte mele rosse, ma ciò non ci autorizza a concludere che tutte le mele del mondo siano rosse.
Se il giorno dieci di ottobre è uscito su Mr. Palomar un post che parla di logica e di paradossi, non è detto che ogni giorno dieci del mese esca un post sullo stesso argomento.
In generale, l'induzione è un'arma potentissima che va però maneggiata con cura: oltre ai rischi che derivano da una cattiva applicazione del metodo, esistono sottili problematiche di natura paradossale che sono insite nello stesso approccio.
Il primo a dimostrare l'esistenza di questi problemi fu il filosofo tedesco Karl Hempel, ideatore del famoso "paradosso dei corvi".
Se è vero che indurre un principio generale assoluto da un'osservazione particolare non è sempre possibile, ragionò Hempel, possiamo comunque "rilassare" la portata dell'induzione dicendo che l'osservazione particolare porta una conferma, pur limitata, alla verità del principio generale. 
Ad esempio, se io osservo un corvo nero, non posso concludere che tutti i corvi del mondo sono neri, ma è pur vero che la mia osservazione è una piccola conferma del fatto che i corvi sono in generale neri.
E fin qui nessun problema.

Ma se invece di considerare l'affermazione generale "tutti i corvi sono neri", prendo in esame l'affermazione "tutte le cose non nere non sono corvi", ecco che sorgono le complicazioni. 
Le due affermazioni, da un punto di vista logico, sono perfettamente equivalenti. Se è vero che tutti i corvi sono neri, infatti, è chiaro che se troviamo una cosa che non è nera, non potrà essere un corvo, e viceversa.
Ebbene, come possiamo portare una piccola conferma sperimentale al fatto che "tutte le cose non nere non sono corvi"? Semplicemente osservando una cosa non nera che non è un corvo.

Una mela rossa va bene?  Bè, nessuno può negare che se sto osservando una mela rossa, ho sotto gli occhi una conferma del principio generale "tutte le cose non nere non sono corvi". E dato che questo principio, come abbiamo visto, è perfettamente equivalente alla grande verità "tutti i corvi sono neri", ecco che la mia mela rossa si rivela una prova a sostegno della tesi che i corvi sono tutti neri!
Com'è possibile? Cosa diavolo c'entra la mela rossa con i corvi?
Allora andrebbe bene anche osservare una mela gialla. O un  prato verde. O il cielo azzurro. O qualsiasi cosa.
E' come se in un processo, come prova a favore del fatto che una certa arma è stata usata in un delitto, venisse presentato un cappello: già, perché si tratta di un oggetto che non è un arma e non ha fatto fuoco.
Eppure, come avete potuto constatare, non ho commesso nessun imbroglio logico. Non c'è alcun gioco di prestigio.
Siamo di fronte a un evidente paradosso.

I paradossi, si sa, esigono, se non una soluzione, almeno un tentativo di trovarne una.
E in questo caso, come possiamo fare?  La spiegazione che più frequentemente viene fornita consiste nell'accettare che in realtà un collegamento tra le mele e i corvi esiste, per quanto debole. Osservare una mela rossa è poca cosa, ma immaginiamo di  catalogare molti altri oggetti non neri, annotando ogni volta che non si tratta di corvi: se, teoricamente, potessimo continuare questa strana attività per un tempo estremamente lungo, a un certo punto esauriremmo tutti gli oggetti non neri dell'universo, e potremmo concludere che nessuno di loro è un corvo. La conclusione, questa volta del tutto lecita, sarebbe che i corvi sono tutti neri.
La singola osservazione di una mela rossa, quindi, per quanto di portata infinitesima rispetto all'impresa di catalogazione universale, ha un suo valore di conferma.

Questa proposta è una delle molte che sono state concepite per cercare di spiegare il paradosso di Hempel. Ma, a ben vedere, un altro problema sorge: se l'esistenza della mela rossa serve a sostenere il fatto che i corvi sono tutti neri, perché non usare la stessa mela per confermare anche un'affermazione opposta, ad esempio "tutti i corvi sono bianchi" (cioè "tutte le cose non bianche non sono corvi")?
Nessuno ce lo impedisce, se ci pensate bene. Ma allora l'osservazione della mela rossa può essere usata come prova a favore di due affermazioni logicamente contrastanti!
Questo è un aspetto ancora più paradossale del precedente, che non può essere spiegato altrettanto facilmente. Ma è solo un assaggio dei problemi logici che sorgono quando ci si addentra appena un poco nel terreno minato dell'induzione. Fiumi d'inchiostro sono stati versati su questi temi, e questo mio post non è che un limitatissimo assaggio dell'argomento.

lunedì 1 ottobre 2012

Parole informatiche: libreria

Per uno strano caso (o forse non esistono le coincidenze?), ho pubblicato i primi due post di questa minimale rubrica informatico-terminologica rispettivamente nei primi giorni dei mesi di agosto e settembre. Ho pensato allora che certe cose prendono spontaneamente il loro giusto ritmo, e sarebbe stato bene non infrangere questa regolarità: ecco quindi la terza puntata inaugurare il nascente mese di ottobre.
La parola informatica del mese è "libreria".
Ho sempre amato i libri, e di conseguenza anche i due luoghi principi abitati dai libri: le biblioteche e le librerie. So bene la differenza tra questi due luoghi, ma, avendo addirittura sposato una bibliotecaria, so altrettanto bene che molte persone non hanno ben presente questa differenza.
E questo fatto è vero al punto tale che quando qualche informatico decise di tradurre in italiano il termine tecnico library, che indica un insieme di risorse non volatili (ad esempio codice, subroutines, classi, dati di configurazione, documentazione, ecc.) che possono essere utilizzate da un programma informatico, invece di tradurlo correttamente come biblioteca, lo tradussero, tratti in inganno dall'assonanza di parole, come libreria.
E' curioso notare come nella stragrande maggioranza delle altre lingue la traduzione sia stata fatta correttamente: gli informatici spagnoli parlano di biblioteca, quelli francesi di bibliothèque logicielle, quelli tedeschi di Programmbibliothek, e così via.
Scarsa propensione degli informatici italiani per le lingue e per le traduzioni? Forse.
Resta il fatto che sarebbe stato bello, per noi informatici, avere a che fare con delle "biblioteche" anche nel nostro lavoro. D'altra parte non è un caso che questi insiemi di risorse siano stati chiamati libraries e non bookstores: la loro utilità risiede nel fatto che essi forniscono una collezione di funzioni o strutture dati di uso comune, evitando allo sviluppatore l'ingrato compito di riscrivere ogni volta da zero le stesse procedure.
Un po' come le biblioteche di libri, che forniscono un servizio pubblico mettendo a disposizione di tutti gli stessi volumi, che quindi vengono di volta in volta utilizzati da diverse persone.

giovedì 27 settembre 2012

Carnevale di libri di scienza #12

Con l'edizione di settembre, ospitata dal blog Scienza.alfa di Jacopo Pasotti, il Carnevale dei Libri di Scienza compie il suo primo anno di vita!
L'interessante tema scelto, le biografie di scienzati, ha attratto un buon numero di contributi, tra i quali quello di Mr. Palomar sulla graphic novel dedicata a Richard Feynman.
Nel fare i complimenti all'organizzatore e ai partecipanti, ricordo l'appuntamento con la prossima edizione, che sarà ospitata, con il tema "Le scienze nella letteratura", da BiblioBredaBlog: un blog che mi sta molto a cuore, essendo curato dalla biblioteca del paese dove vivo (e dalla "mia bibliotecaria preferita"), nonché dai gruppi di volontari che gravitano attorno alla biblioteca stessa (dei quali io stesso faccio parte).
Buona lettura e buon carnevale a tutti!

mercoledì 26 settembre 2012

Pitagora e la scoperta della musica

In un mio vecchio post senza parole, intitolato semplicemente "Pitagora", Antonella Ruggiero suona un curioso strumento ispirato al celebre "monocordo" del filosofo di Samo. Questo strumento fu inventato e utilizzato da Pitagora per i suoi studi di teoria musicale. Come il suo stesso nome suggerisce, era composto da una sola corda, tesa tra due ponticelli sopra una cassa armonica; sotto la corda un terzo ponticello intermedio e mobile consentiva di dividere la corda stessa a piacere, dando origine a suoni diversi. Pitagora fu il primo a fondare lo studio della musica su basi matematiche.

Dalle sue sperimentazioni sul monocordo capì che una corda messa in vibrazione produce un suono la cui “altezza” percepita dall’orecchio umano è in stretta relazione con la lunghezza della corda stessa.
Certo, Pitagora non poteva arrivare a concepire il legame tra l’altezza di un suono e la frequenza dell’onda sonora associata; più semplicemente si accorse che più la corda è lunga, più la nota prodotta viene avvertita come “bassa” o “grave”; al contrario una corda più corta produce una nota che viene riconosciuta come più “alta” o “acuta”.
Ma il grande matematico greco non si fermò a questa elementare considerazione. Ebbe infatti l’idea di associare ogni nota ad un numero, precisamente l’inverso della lunghezza della corda responsabile della generazione del suono stesso. Ad esempio, associò al numero 1 la nota prodotta da una corda lunga 1 metro, e al numero 2 la nota prodotta da una corda lunga mezzo metro.
Grazie a questo utilizzo dell’inverso della lunghezza, note più acute risultano associate a numeri più grandi, in modo da conciliare l'altezza della nota con l’altezza del numero che la rappresenta.
Inoltre, adoperando questo metodo, ogni nota risulta contraddistinta da un numero che è di fatto proporzionale alla propria frequenza.


Una volta ideato questo sistema di numerazione dei suoni, Pitagora considerò diverse “coppie” di note (che a questo punto potevano essere tradotte in coppie di numeri), e scoprì che le note che “stanno bene insieme” sono legate tra di loro da un rapporto numerico semplice.  Ad esempio, se facciamo vibrare una corda che produce una nota legata al numero 1, e poi un’altra corda che genera un suono associato al numero 2 (in questo caso, quindi, la prima corda è lunga il doppio della seconda), otteniamo due suoni che l’orecchio umano, istintivamente, classifica come “simili”, o addirittura “uguali”. Questo intervallo musicale è quello che noi chiamiamo "ottava" (il motivo di questo nome diventerà chiaro più avanti). Le due note suonano all'orecchio così "uguali" che nella tradizione musicale vengono chiamate con lo stesso nome: ad esempio due do.
Quando non sono impegnato con il lavoro o con le mie corbellerie divulgative, mi onoro di far parte di un pregevole coro, alle cui performance contribuisco con una mediocre voce di basso. Ebbene, i brani che cantiamo prevedono, nella maggior parte dei casi, quattro voci, che corrispondono ai quattro registri di soprano, contralto, tenore e basso; normalmente le quattro parti portano avanti altrettante linee melodiche indipendenti, che però si intrecciano reciprocamente generando un contrappunto che fa del coro un vero gruppo polifonico. In alcuni casi, però, ad esempio quando cantiamo brani della tradizione gregoriana, le voci sono soltanto due: soprani e contralti cantano all'unisono, mentre tenori e bassi cantano esattamente la stessa melodia ma traslata in basso di un'ottava. Questo è un esempio di canto corale monodico, in cui se due note vengono "suonate" insieme, si tratta di due note separate tra loro da un rapporto numerico pari a 2:1. In altre parole, se volessimo riprodurre con una corda la nota intonata da soprani e contralti (quella all'ottava superiore, insomma), servirebbe una corda lunga esattamente la metà di quella necessaria per imitare la nota cantata dai  bassi e dai tenori.
Il rapporto numerico semplice tra le lunghezze delle corde si riflette (anche se Pitagora questo non lo sapeva) nel rapporto tra le frequenze dei suoni fondamentali: se, ad esempio, le donne del coro intonano un la centrale (quello del diapason, per intenderci), pari a una frequenza di 440 hertz, gli uomini del coro rispondono con un la all'ottava sotto, pari a una frequenza di 220 hertz.
Un altro intervallo di note che "suonano bene insieme", notò Pitagora, è quello associato al rapporto 3:2: in questo caso non avvertiamo quel senso di "uguaglianza" di note, ma universalmente la combinazione sonora è percepita come gradevole, armoniosa, o, come dicono i musicisti, "consonante".
Partendo dalla nota associata al numero 1, quindi, invece di passare alla nota legata al numero 2 (cioè prodotta da una corda lunga la metà), passiamo a una nota legata al numero 3:2 = 1,5 (quindi prodotta da una corda lunga due terzi rispetto alla prima).
Così come l'intervallo collegato al rapporto 2:1 viene chiamato dai musicisti "ottava", quello connesso al rapporto 3:2 è detto "quinta" (ancora una volta, non preoccupiamoci del motivo: apparirà chiaro più avanti).
Sulla base di questa semplice matematica, possiamo ripercorrere il metodo attraverso il quale Pitagora costruì la prima scala musicale (per la verità, prima di lui furono matematici cinesi a inventare il procedimento, ma la tradizione occidentale attribuisce la scoperta al filosofo di Samo).

Partendo da una nota convenzionalmente associata al numero 1, saltiamo avanti di una ottava, arrivando alla nota contraddistinta dal numero 2:1 = 2. Le due note così ottenute, come abbiamo visto, suonano come "la stessa nota". E' quindi naturale assegnare loro lo stesso nome, ad esempio "do", ma abbiamo anche la necessità di distinguerle in qualche modo: utilizziamo per questo motivo la convenzione di chiamare "do1" la nota iniziale, più bassa, e "do2" la seconda, all'ottava superiore.

Se facciamo altri salti di un'ottava, raddoppiando ad ogni salto il numero della nota, otteniamo via via altri do: il do3, associato al numero 4, il do4, associato al numero 8, il do5, associato al numero 16, e così via. Partendo sempre dal do1 e tornando indietro di un'ottava, otteniamo invece il do0, il cui numero associato è 1:2 = 0,5.


do0
do1
do2
do3
do4
do5
1:2 = 0,5
1
2:1 = 2
2 * 2:1 = 4
4* 2:1 = 8
8 * 2:1 = 16



In questo modo, i pedici aggiunti ai nomi delle note servono ad indicare l'ottava di appartenenza della nota stessa.   Il nostro obiettivo, però, è quello di concentrarci su una sola delle ottave, ad esempio quella contenente le note associate a numeri compresi tra 1 e 2, e determinare l'altezza numerica di queste singole note: vogliamo, in altre parole, costruire una semplice scala musicale che copre l'ottava compresa tra il do1 e il do2. Ripartiamo allora dal do1, e andiamo avanti di una quinta, ottenendo una nota legata al numero 3:2 = 1,5. Essendo questo numero compreso tra 1 e 2, deduciamo che questa nota è compresa tra il do1 e il do2, (com'è ovvio che sia, dato che l'intervallo di quinta è più piccolo di quello di ottava), e la chiamiamo "sol1".
Partendo sempre dal do1, ma andando indietro di una quinta, costruiamo una nota che risulta associata al rapporto 2:3 = 0,666.  In questo caso ci troviamo sopra il numero 0,5 associato al do0, per cui battezzeremo la nota ottenuta come "fa0". Sappiamo però che la nostra meta è riempire l'ottava compresa tra il do1 e il do2, mentre questo fa0 si trova fuori di tale intervallo. Niente paura: basta avanzare di una ottava, cioè raddoppiare il rapporto 2:3, ottenendo 4:3. Ecco a voi il "fa1", corrispondente al numero 4:3 = 1,333.
Dato che con tutte queste note rischiamo di perderci, aggiorniamo la situazione con un nuovo schema, questa volta limitato all'ottava compresa tra il do1 e il do2.

do1
fa1
sol1
do2
1
4:3 = 1,333
3:2 = 1,5
2:1 = 2



Ho volutamente lasciato degli spazi tra una nota e l'altra, perché ancora non sappiamo quali altre note riusciremo a costruire grazie al metodo pitagorico e quali spazi ancora vuoti della scala andranno a riempire.  Ripartendo dal sol1, proseguiamo avanti sempre considerando intervalli di quinta: la prima volta raggiungiamo la nota corrispondente al numero (3:2) * (3:2) = 9:4 = 2,25, che si trova fuori dalla nostra ottava di riferimento. Abbiamo quindi bisogno di abbassarci di un'ottava, dividendo per 2: abbiamo così creato la nota associata al numero 9:8 = 1,125, che chiameremo "re1".
Salendo ancora di una quinta, giungiamo al suono legato al numero (9:8) * (3:2) = 27:16 = 1,6875, che si trova nel nostro intervallo: questa nota la chiameremo "la1".
Da questa nota si arriva, con un altro salto di quinta, al numero (27:16) * (3:2) = 81:32 = 2,53125, che è sopra il do2, e quindi necessita di un abbassamento di ottava. Così facendo, cioè dimezzando il numero, otteniamo 81:64 = 1,265625, e diamo il nome "mi1" alla nota che abbiamo generato.
L'ultimo passo ci serve per arrivare alla nota contraddistinta dal numero (81:64) * (3:2) = 243:128 = 1,8984375, che appartiene ancora all'ottava considerata e che chiameremo "si1".
Non ci resta che mettere in ordine le note che abbiamo costruito grazie a questo procedimento. Ciò che otteniamo è la scala pitagorica:

do1
re1
mi1
fa1
sol1
la1
si1
do2
1
9:8 = 1,125
81:64 = 1,266
4:3 = 1,333
3:2 = 1,5
27:16 = 1,687
243:128 = 1,898
2:1 = 2




Il risultato al quale giunse Pitagora è molto elegante dal punto di vista matematico. Per prima cosa, procedendo per intervalli di quinta (eventualmente corretti per ottava), abbiamo ottenuto una scala formata da note che vanno dal do1 al do2: precisamente sette note (senza considerare la ripetizione del do).
Il fatto che le note siano sette, più l'ottava che è uguale alla nota di partenza, ci chiarisce finalmente il motivo del termine "ottava", che avevamo dato per scontato all'inizio.
Anche la parola "quinta" diventa ora ovvia: si tratta di un intervallo che spazia tra cinque note della scala.

Inoltre, e qui sta il bello, le note della scala che abbiamo costruito risultano disposte in modo piuttosto uniforme; in altre parole gli intervalli tra due note consecutive sono di soli due tipi:
1) un intervallo detto tono, corrispondente a 9:8 = 1,125, esistente tra il do e il re (infatti (9:8)/1 = 9:8), tra il re e il mi (infatti (81:64)/(9:8) = 9:8), tra il fa e il sol (infatti (3:2)/(4:3) = 9:8), tra il sol e il la (infatti (27:16)/(3:2) = 9:8) e tra il la e il si (infatti (243:128)/(27:16) = 9:8);
2) un intervallo detto limma, corrispondente a 256:243 ≈ 1,053, esistente tra il mi e il fa (infatti (4:3)/(81:64) = 256:243) e tra il si e il do (infatti 2/(243:128) = 256:243).

Il fatto negativo è che questi due diversi intervalli non sono imparentati l'uno con l'altro. Sicuramente Pitagora sarebbe stato molto felice se avesse potuto constatare che la limma era esattamente la metà del tono: ma così purtroppo non è.
La limma risulta uguale a circa il 44,25% del tono: insomma, non c'è una relazione semplice tra le due quantità. Ne consegue che l'ottava non può essere divisa in parti proporzionali (per evitare di dover modificare l'intonazione delle singole note al cambiare della tonalità), e questo costituisce il più grave difetto della scala pitagorica appena costruita. Nelle prossime puntate di questa nuova serie di post, vedremo come questo problema fu affrontato e infine risolto.

lunedì 24 settembre 2012

Feynman a fumetti


Se il fumetto è, per così dire, un mezzo anticonvenzionale per fare divulgazione scientifica, non si poteva scegliere una figura di scienziato più appropriata per una graphic novel: Richard Feynman non era soltanto un fisico geniale e di primo livello (fu insignito del Nobel all'età di 47 anni), ma anche un uomo singolare, divertente e brillante, pieno di interessi extra-scientifici e amatissimo dal pubblico.

Come ricorda il retro di copertina, Feynman era scassinatore di casseforti, avventuriero, musicista (suonava il bongo), raccontastorie di prima categoria e un vero spasso alle feste. Quando una rivista l'aveva definito come l'uomo più intelligente del mondo, sua madre affermò: "Se questo è l'uomo più intelligente del mondo, che Dio ci aiuti".


Pochi giorni fa un carissimo amico mi ha regalato per il mio compleanno questo delizioso libro, realizzato da Jim Ottaviani e Leland Myrick per Bao Publishing.  Sfogliando le sue pagine, la tentazione di scrivere due righe su quest'opera si è fatta subito irresistibile, nonostante Feynman non fosse né un matematico né un informatico: ma non possiamo dimenticare che le connessioni tra questa grande mente del Novecento e la computer science sono numerose e fondamentali.
L'attuale ricerca sui computer quantistici, di cui ho tentato di tracciare una sintetica introduzione nei miei quattro post "Mr. Q" (prima, seconda, terza e quarta parte), prese le mosse nel 1982 da una geniale idea di Feynman.
La brillante biografia di Ottaviani e Myrick non approfondisce questo aspetto dell'opera del fisico americano, ma svela altre incursioni di Feynman nel mondo dell'informatica: dai suoi contributi allo studio dei computer paralleli, alle ricerche sulla teoria dell'informazione digitale e alle nanotecnologie.

Due parole sugli autori di questo libro: Jim Ottaviani è ingegnere, bibliotecario e programmatore, e ha al suo attivo molte altre storie a fumetti sulla storia della scienza; Leland Myrick è un pluripremiato autore e illustratore di graphic novel.
Il romanzo grafico che hanno realizzato racconta la vita di Feynman dalla sua partecipazione al Progetto Manhattan fino alla sua consulenza per individuare, nel 1986, le cause del disastro dello Shuttle Challenger, passando attraverso gli studi, gli amori, la brillante carriera accademica e scientifica, gli incontri con altri grandi scienziati, lo sviluppo dei diagrammi e degli integrali di cammino che portano il suo nome, le ricerche sull'elettrodinamica quantistica che gli valsero il Nobel, le sue brillanti conferenze, l'interesse per la biologia.

La narrazione è appassionante, chiara, divertente, ma non rinuncia al rigore e si addentra con successo in taluni dettagli molto tecnici delle teorie di Feynman: ma senza mai annoiare e senza fare impazzire il lettore.  Leggetelo: libri come questo sono eccellenti esempi di divulgazione scientifica.

sabato 15 settembre 2012

Carnevale della Matematica #53 sui Rudi Mathematici

E' ormai universalmente noto che il Carnevale della Matematica è un avvenimento di grande importanza che ogni mese ci riserva piacevoli sorprese. Ma quando a organizzarlo sono gli insigni Rudi Mathematici, bè, allora si può stare tranquilli che qualcosa di straordinario riescono ad architettarti, così da rendere l'appuntamento ancora più solluccheroso.
Per questa edizione numero 53, i Rudi si sono inventati una genialata che ha fatto divertire tutti i partecipanti e i visitatori del Carnevale: hanno piazzato, in corrispondenza dei contributi del mese, delle presunte foto degli autori, avanzando però alcuni dubbi di autenticità delle stesse. Nel mio caso, ad esempio, la foto mi ritrae alla guida di un giallo bolide da rally. Immagine vera o apocrifa? Non se ne parla: vi lascerò il dubbio.
Molti e grandi complimenti ai sommi Rudi Mathematici, e a tutti i contributori.
L'appuntamento è al mese di ottobre, per il quale, credo, non si è ancora fatto avanti un organizzatore: suvvia, fatevi avanti, ospitare il Carnevale è un'esperienza divertentissima e memorabile!

domenica 9 settembre 2012

Il teorema della palla pelosa

Ogni tanto capita. Ti alzi dal letto con la sensazione di esserti trasformato non in un enorme insetto immondo, come il povero Gregorio Samsa, ma in una specie di porcospino, o in un gatto dal pelo arruffato appena uscito da un selvaggio duello con un altro gatto.
Ti guardi allo specchio e hai conferma del tuo presentimento: i capelli non vogliono saperne di stare al loro posto, e assomigli più a Barbabarba che a te stesso.
In questi difficili momenti non ti abbattere più del dovuto, e pensa che la matematica può esserti di conforto. In particolare, esiste un teorema che stabilisce l'impossibilità di pettinare perfettamente una sfera: il cosiddetto "teorema della palla pelosa", dimostrato nel 1912 dal matematico olandese Luitzen Egbertus Jan Brouwer (che, ironicamente, almeno stando alle fotografie che si trovano in rete, era parecchio stempiato).

Brouwer è passato alla storia della matematica per avere dimostrato due importanti teoremi (oltre a questo della palla pelosa, il famoso teorema del punto fisso), ma anche alla storia della filosofia matematica per essere stato il vero iniziatore della scuola matematica intuizionistica (secondo la quale la matematica è essenzialmente un insieme di costruzioni mentali).
Tornando al teorema della palla pelosa, una sua enunciazione più rigorosa afferma che, data una ipersfera S a n dimensioni (con n pari oppure uguale a 3), e un campo vettoriale f che associa ad un ogni punto P della ipersfera un vettore n-dimensionale f(P) tangente alla ipersfera stessa nel punto P, esiste almeno un punto Q della ipersfera in cui f(Q) = 0.
Se la ipersfera, per semplicità, viene ridotta ad una innocua sfera a 3 dimensioni, e i vettori tangenti f(P) vengono considerati i "capelli" spuntati sulla superficie della sfera, il teorema dice che ci sarà almeno un punto della sfera privo di capelli, oppure con un capello ritto e sparato in aria.

Per la verità, il teorema non è rigorosamente applicabile al caso della pettinatura dei capelli, perché la nostra testa non è una sfera completamente capelluta (anche se in alcuni casi ci si avvicina a tale condizione): se tuttavia vogliamo stiracchiare il fondamentale risultato di Brouwer, ed applicarlo al lavoro del parrucchiere, il concetto è che non si può pettinare una testa senza creare da qualche parte una chierica o un ciuffo ribelle.
A differenza della sfera, il toro, cioè una superficie a forma di ciambella, è invece perfettamente pettinabile.

Il teorema ha una suggestiva applicazione in meteorologia: se approssimiamo la superficie terrestre a una sfera, e consideriamo la circolazione atmosferica con una funzione che assegna a ogni punto della superficie terrestre il vettore, tangente alla superficie stessa, che indica la direzione del vento, il teorema afferma che esiste almeno un punto della Terra in cui non c'è vento.
Questi punti sono gli "occhi" dei cicloni.  In pratica il teorema della palla pelosa applicato alla superficie terrestre ci assicura che in qualche parte del mondo c'è sempre un ciclone in azione (o un anticiclone).
Per la verità, questa conclusione parte dal presupposto di trascurare la componente verticale del "vettore vento", e di considerare solo quella tangente alla superficie: approssimazione accettabile, dato che il diametro terrestre è molto maggiore dello spessore dell'atmosfera.

Il teorema di Brouwer è stato applicato con successo anche ad altri ambiti, come la scienza dei materiali: nel 2007 lo scienziato italiano Francesco Stellacci si è servito del teorema della palla pelosa per ottenere una particolare struttura formata da una catena di nanoparticelle, utilizzabile come speciali nano-fili in dispositivi elettronici.

L'ultimo post di Mr. Palomar, anzi no

Sono trascorsi quasi 14 anni da quel Capodanno del 2011, quando Mr. Palomar  vide la luce. Da allora, molta acqua è passata sotto i ponti, c...