sabato 30 novembre 2019

Dividere per zero (parte seconda)

George Berkeley
L’impossibilità di assegnare un valore alla divisione per zero è divenuto un solido pilastro della matematica soltanto in tempi molto più recenti: uno dei primi riferimenti è presente nel saggio The Analyst pubblicato nel 1734 da George Berkeley.
D’altra parte, è possibile convincersi di questo anche senza ricorrere a false dimostrazioni come quella precedente. Per esempio, a scuola abbiamo imparato che 6∶3=2 perché 2∙3=6. Analogamente, se, dato un certo numero a diverso da zero, potessimo calcolare il risultato della divisione a∶0, la moltiplicazione di questo per zero dovrebbe restituirci a. Per esempio, se 4∶0 fosse un numero, moltiplicando questo numero per zero dovremmo ottenere 4. Ma lo sanno tutti che moltiplicando un numero qualsiasi per zero si ottiene irrimediabilmente zero. Quindi la divisione per zero è impossibile.
E se lo stesso a fosse uguale a zero? In questo caso il ragionamento da svolgere sarebbe un po’ diverso: il risultato della divisione 0∶0, moltiplicato per zero, dovrebbe restituire zero. Per quanto appena detto, qualsiasi numero potrebbe andare bene, cioè la divisione 0∶0 potrebbe avere un risultato qualsiasi. Ma in matematica non possiamo permetterci il lusso di avere operazioni indeterminate, in cui qualsiasi numero è un risultato accettabile. La divisione tra due numeri deve avere un unico risultato corretto, altrimenti la dobbiamo bollare come priva di significato. Così anche la divisione di zero per se stesso non è definita, è un nonsense matematico.

Non siete ancora persuasi che la divisione per zero rappresenta il crimine matematico più nefando e imperdonabile? Lasciatevi allora convincere da un esempio musicale. Immaginate che una rock band debba registrare dodici canzoni per il prossimo disco e che decida di suddividerle in gruppi, così da programmare al meglio le giornate di lavoro in studio di registrazione. Se i pezzi sono già ben rodati, può darsi che in un giorno si possano produrre tutti e dodici i brani: in tal caso basterà un’unica giornata di lavoro (12∶ 12 = 1). Se invece si decide di registrare 6 canzoni al giorno, serviranno 2 giornate (12∶ 6 = 2). Se la band volesse fare le cose in modo molto puntiglioso, potrebbe decidere di dedicare un’intera giornata a ciascun brano, impiegando così ben 12 giorni per completare il disco (12∶1 = 12). E se i musicisti, presi da un’improvvisa svogliatezza, decidessero di registrare zero brani al giorno? Naturalmente le dodici canzoni non vedrebbero mai la luce, nemmeno dopo un numero infinito di giornate, e addio sogni di gloria. In altri termini, sommando tra di loro tanti zeri otteniamo sempre zero e non possiamo mai arrivare a 12. Quindi la divisione 12∶0 non ha alcun risultato sensato.
Un ragionamento analogo potrebbe essere sviluppato fissando il numero di giornate di lavoro anziché quello di pezzi per sessione. Se la band decide di lavorare per 12 giorni, registrando un numero fisso di pezzi a giornata, dovrà dedicarsi ogni giorno a 1 solo brano (12∶ 12 = 1). Volendo concludere le sessioni dopo 6 giorni, ogni giornata sarà dedicata a 2 canzoni (12∶ 6 = 2). E così via. Se i musicisti volessero cavarsela in una sola giornata, registrerebbero tutti i pezzi in una sessione (12∶ 1 = 12). Ma se pensassero di impiegare zero giornate, saremmo autorizzati a dubitare della loro sanità mentale, perché non c’è modo di programmare le 12 registrazioni se sul calendario non ci sono date riservate a questa attività. Ancora una volta abbiamo constatato che non è possibile dividere 12 per 0.

Torniamo ai Pet Shop Boys e alla loro “Two Divided by Zero”. Come abbiamo visto, Chris Lowe era erroneamente convinto che il risultato della divisione per zero fosse una quantità infinita. Se avesse dato retta a Neil Tennant e a Bobby Orlando, che si ricordavano dell’illegalità di questa operazione aritmetica, all’interpretazione metaforica “due divisi da nulla” avrebbe potuto aggiungere un ulteriore, ingegnoso significato: è assurdo provare a dividere i due amanti protagonisti della storia, così come è impossibile tentare di dividere due per zero.
Mi piace fantasticare che la voce sintetica del computer sia stata una trovata del duo britannico per alludere all’aspetto computazionale della divisione per zero. Chiunque si sia cimentato, anche non in maniera approfondita, nell’arte della programmazione, avrà sperimentato almeno una volta la fastidiosa sensazione di vedere un proprio programma arrestarsi sbandierando il triste messaggio di errore “Division by zero”. Se avete una calcolatrice (al limite anche quella virtuale sul vostro computer), vi basta premere di seguito i tasti [2], [:] e [0] per ottenere un simile messaggio al posto di un normale risultato numerico.
La maggior parte dei processori e dei linguaggi informatici genera un errore quando un programma tenta di dividere per zero. Se ne accorsero, loro malgrado, i membri dell’equipaggio dell’incrociatore USS Yorktown il 21 settembre 1997, quando la nave della Marina americana si fermò all’improvviso durante alcune manovre di addestramento al largo di Cape Charles in Virginia.

L'incrociatore americano USS Yorktown
Che cos’era accaduto? Uno dei tecnici della nave, incaricato di risolvere un problema meccanico riscontrato in una valvola del carburante, aveva pensato di calibrare e resettare il dispositivo da remoto, attraverso un’applicazione informatica collegata al database del sistema di controllo della propulsione. Per eseguire l’intervento, digitò uno zero in uno dei campi dell’applicazione, ma questa tentò di dividere un numero per la quantità nulla inserita dal tecnico, generando uno sciagurato errore di divisione per zero. Come dicono gli informatici, l’applicazione andò in crash e innescò una malaugurata catena di errori che provocò infine il blocco totale della nave. La Yorktown era stata utilizzata con successo dal 1984, anche in operazioni di guerra, senza mai riportare incidenti, ma quel giorno rimase come morta per due ore e 45 minuti. Alla fine i tecnici riuscirono a sbloccare i motori e a ricondurre la nave nel porto di Norfolk. Proprio l’impossibilità matematica della divisione per zero aveva annichilito gli ottantamila cavalli vapore di quel colossale incrociatore.

Può darsi che l’incidente della Yorktown avesse contribuito ad attirare l’attenzione di molti sulla questione aritmetica della divisione del zero: fatto sta che nel 2003 addirittura un intero album musicale fu intitolato a questa operazione proibita. "Division by Zero" è un CD del 2003 del musicista svedese Hux Flux, al secolo Dennis Tapper, noto per le sue produzioni di psychedelic trance e prematuramente scomparso nel 2018. A Tapper la matematica doveva piacere molto, visto che i suoi brani sfoggiano titoli come "Calculus", "Logarithmic", "Finite Automata", "Numerous Numerics", "Equivalent Equations", "Numbers" (quest’ultimo contiene perfino un frammento tratto dal film Pi di Darren Aronofsky, dedicato al pi greco). Lo strano caso dell’incrociatore americano ebbe un’altra curiosa conseguenza: l’ingresso della divisione per zero nell’immaginario ironico dei nerd, nel mondo dei meme di internet e nello slang della rete. Alla fatidica operazione è infatti associato un significato metaforico che ha che fare con un’azione proibita e al tempo stesso irrimediabilmente catastrofica: un po’ come il leggendario pulsante rosso dello Studio Ovale che, una volta premuto, scatenerebbe la guerra mondiale nucleare (senza la possibilità di premere un altro pulsante di annullamento dell’operazione). In questa giocosa simbologia telematica, la divisione per zero è spesso collegata alla frase interrotta “OH SHI-“: la naturale e disperata imprecazione di chi si è accorto di aver compiuto un errore analogo a quello del tecnico della Yorktown… ma troppo tardi.

Un internet meme associato alla divisione per zero
In alcuni sistemi informatici, tuttavia, la divisione per zero non è considerata causa di errore, ma produce un risultato associato a una quantità infinita. Sia chiaro: questo non significa che la questione della divisione per zero sia controversa o soggettiva e che si possa affermare che il risultato dell’operazione sia uguale a infinito.
Insomma, Bhaskara II aveva torto e Tennant ricordava le lezioni di matematica del liceo meglio del collega Lowe. Ma la faccenda non può essere liquidata così: adesso vi devo spiegare cosa c’entra la divisione per zero con il vertiginoso concetto matematico dell’infinito.
Anche se non possiamo eseguire una divisione come 1:0, possiamo tuttavia provare a dividere 1 per numeri via via più piccoli e vedere cosa succede.

Per esempio:

1:1=1
1:0,1=10
1:0,01=100
1:0,001=1000
1:0,0001=10000
1:0,00001=100000
eccetera.

Visto? Man mano che i divisori si rimpiccioliscono, cioè si avvicinano allo zero, i risultati della divisione diventano sempre più grandi. Possiamo esprimere questo fatto affermando che, al tendere del divisore a zero, il quoziente della divisione tende a una quantità positiva e infinita. Attenzione però: questo non significa che possiamo eseguire la divisione per zero. Significa soltanto che la sequenza dei quozienti delle divisioni sopra riportate ha un valore limite: tale valore viene indicato con il simbolo +∞ (“più infinito”). Questo valore non è un numero, ma rappresenta una tendenza, un avvicinamento illimitato a valori positivi sempre più grandi.
Dobbiamo sottolineare un altro fatto. Se, anziché considerare divisori positivi sempre più piccoli e sempre più vicini a zero, avessimo preso in esame divisori negativi sempre più grandi e quindi sempre più prossimi a zero, avremmo ottenuto una sequenza di questo tipo:

1:(-1)=-1
1:(-0,1)=-10
1:(-0,01)=-100
1:(-0,001)=-1000
1:(-0,0001)=-10000
1:(-0,00001)=-100000
eccetera.

In questo caso, al tendere dei divisori a zero, i risultati della divisione diventano numeri il cui valore assoluto è sempre più grande. Tuttavia, trattandosi di numeri negativi, il loro valore limite corrisponde a una quantità infinita ma negativa, indicata con il simbolo -∞ (“meno infinito”).
Il fenomeno è ben illustrato dalla figura seguente.

Valore limite del risultato della divisione per quantità tendenti a zero

Il grafico mostra sull’asse orizzontale i valori di x e sull’asse verticale i corrispondenti quozienti 1:x. Quando x assume valori positivi, anche il quoziente è positivo (infatti il grafico è tutto nel primo quadrante, cioè quello in alto a destra): in particolare, quando ci si sposta da destra verso l’asse verticale perché si considerano valori di x sempre più prossimi a zero, il grafico si impenna verso l’alto, perché i quozienti tendono a inerpicarsi sull’inarrivabile vetta di +∞. Quando invece x è negativo, lo è anche il corrispondente quoziente (e il grafico è contenuto nel terzo quadrante, ovvero quello in basso a sinistra): quando ci si avvicina da sinistra verso l’asse verticale considerando valori di x sempre più vicini a zero, il grafico precipita in basso, per rappresentare la tendenza dei quozienti all’irraggiungibile abisso di -∞.
Una cosa è certa ed evidente anche dalla figura: il grafico non si azzarda mai a toccare l’asse verticale. Vi si avvicina indefinitamente, sia da destra che da sinistra, quando x si avvicina sempre di più a zero, ma si guarda bene dal raggiungerlo, perché x non può mai valere esattamente zero. I matematici usano il termine asintotico (dal greco asymptotos, che significa “che non si incontra”) per indicare un avvicinamento di questo tipo, eterno, costante ma mai coronato dal successo.
A me tutto questo ricorda molto la vicenda di un innamorato che, irresistibilmente attratto dalla persona amata, le si avvicina sempre più, ma per un incantesimo beffardo non riesce mai a raggiungerla: una sorta di tragedia romantica in chiave matematica. È una metafora di segno opposto rispetto a quella concepita da Tennant e Lowe in “Two Divided by Zero”: là, infatti, i due protagonisti sono uniti per l’eternità e non si divideranno mai.
In entrambi i casi a stabilire i destini ultimi dei protagonisti è la divisione per zero, anzi la sua impossibilità. Non osate scherzare con questo fuoco, cari lettori. Non arrischiatevi a scavalcare le recinzioni innalzate dall’assurdità di questa operazione, non sognatevi mai di scrivere uno zero sotto una linea di frazione: non vorrete mica causare un’avaria a qualche incrociatore americano, o provocare un disastro apocalittico come quelli evocati dai nerd della rete, vero?

mercoledì 27 novembre 2019

Dividere per zero (parte prima)

Un giorno del mese di agosto del 1981 due ragazzi si conobbero in un negozio di elettronica sulla Kings Road, nel quartiere londinese di Chelsea, e divennero amici.
Neil Tennant aveva 27 anni: si era laureato in storia sei anni prima, alla North London University, e lavorava come redattore presso case editrici. Chris Lowe era più giovane di cinque anni: era iscritto ad architettura all’università di Liverpool ma quell’estate aveva trovato un impiego a Londra come progettista di scale.
Durante l’adolescenza Tennant aveva imparato a suonare la chitarra e il violoncello, Lowe il pianoforte e il trombone. I due scoprirono subito due grandi passioni comuni: la musica disco e i sintetizzatori. Non passò molto tempo e decisero di fondare una band, con Tennant alla voce e Lowe alle tastiere elettroniche. Il primo nome del gruppo fu West End, dal nome della vasta area di Londra situata a ovest della City e a nord del Tamigi.
Successivamente, ispirati dal negozio di animali che un loro amico gestiva nel distretto di Healing, optarono per Pet Shop Boys. Nel corso dei primi due anni di cooperazione, Tennant e Lowe sfornarono alcune delle canzoni che avrebbero costituito il loro repertorio futuro.

La svolta della loro vita professionale arrivò nel 1983. Tennant ricevette dalla rivista Smash Hits il prestigioso incarico di intervistare i Police a New York. Ma al giovane editor non importava proprio niente di incontrare Sting e compagni: il suo vero obiettivo era atterrare negli States e avvicinare il produttore musicale statunitense Bobby Orlando. Tennant riuscì nel suo intento, e seppe strappare anche la promessa di una collaborazione.
Nel 1984 Orlando produsse il singolo “West End Girls”, che ebbe un certo successo in California, ma passò inosservato altrove. I Pet Shop Boys diedero allora il benservito a Orlando e firmarono un contratto con la Parlophone. Il secondo 45 giri, “Opportunities (Let’s Make Lots of Money)” del 1985, si rivelò un altro fiasco. Ai due non mancava però la tenacia.
Nell’estate del 1985, i Pet Shop Boys ripubblicarono il brano “West End Girls” con il produttore Stephen Hague: e questa volta il successo arrivò, enorme e inaspettato. Il singolo vendette un milione e mezzo di copie e raggiunse la vetta delle classifiche negli Stati Uniti e in molti altri paesi.

La copertina dell'album Please dei Pet Shop Boys
Nel marzo dell’anno successivo uscì il primo album, intitolato Please. Si racconta che fu scelto questo titolo per far sì che i fans potessero entrare nei negozi di musica e chiedere “Can I have the Pet Shop Boys album, Please?”
Please fu il primo episodio di una lunga carriera premiata da una immensa fama planetaria. I Pet Shop Boys hanno venduto 50 milioni di dischi in tutto il mondo e sono considerati il duo musicale inglese di maggior successo della storia.
Come definire il loro stile? Lowe dichiarò di non aver mai amato particolarmente la musica rock e ne è una conferma il titolo del loro brano "How I Learned to Hate Rock and Roll" del 1996. Senza dubbio il synth pop dei Pet Shop Boys è più vicino al filone dance o disco, ma liquidare la loro produzione con queste frettolose etichette sarebbe semplicistico.
Il duo inglese riuscì a forgiare uno stile molto originale, melodico ma impreziosito da arrangiamenti complessi, ballabile ma caratterizzato da testi spesso intellettuali. La rivista musicale americana Billboard li nominò al primo posto tra i gruppi dance di ogni epoca. La produzione di Tennant e Lowe, sempre sorretta da una rara grazia, ha ricevuto apprezzamenti anche dalla critica più esigente.
Oltre a “West End Girls” e “Opportunities”, Please comprendeva  altri pezzi di grande popolarità, come “Love Comes Quickly” e “Suburbia”. La opening track dell’album, invece, è meno nota e fu scritta quando il produttore del gruppo era ancora Orlando. Un giorno Tennant acquistò, come regalo di Natale per il padre, un computer che aveva la capacità di riprodurre ad alta voce formule matematiche. Forse era un modello della Texas Instruments o forse della Sharp.
La voce della macchina, sintetica ma con una venatura malinconica, piacque subito a Neil, ma anche a Chris e a Bobby: i tre pensarono che sarebbe stato bello adoperarla per una canzone, facendo pronunciare al computer la frase “Two Divided by Zero”, ovvero “2 diviso per 0”.

Secondo quanto riportato nel booklet della riedizione 2001 di Please, fu probabilmente Lowe a proporre questa espressione matematica, stimolato dall’idea suggestiva che un numero diviso per zero fosse uguale a infinito. Pare che Neil e Bobby non fossero d’accordo con lui e avessero sostenuto che sui libri di matematica questo tipo di operazione aritmetica viene considerata illegale. Sappiamo che i tre discussero a lungo su chi avesse ragione: tra breve scopriremo anche noi la verità.
Lowe indicò anche una possibile interpretazione metaforica della stessa espressione: “two divided by zero” può essere tradotto anche come “due divisi da nulla”, ovvero “due persone che non possono essere divise da niente al mondo, perché sono una cosa sola”. Questa immagine ne richiamò un’altra: due amanti che corrono via, insieme, verso New York. Nella mente di Tennant si affacciò allora un ricordo della sua adolescenza a Newcastle: lui che di notte andava con gli amici alla stazione, per vedere i treni in partenza per Londra.
Guidato da questa visione romantica poté completare il testo della canzone. Lo stesso Tennant ha raccontato che, dopo aver registrato il pezzo con Bobby Orlando, restituì il computer al padre, ma fu costretto a riprenderselo quando la canzone dovette essere nuovamente registrata con Stephen Hague per l’album Please. Dopo di che di quella macchina si persero le tracce.
Ecco il testo di “Two Divided By Zero”:

Let's not go home, we'll catch the late train
I've got enough money to pay all the way
When the postman calls, he'll deliver the letter
I've explained everything; it's better that way
I think they heard a rumour
(Divided by, divided by) Or someone tipped them off
(Divided by, divided by) It's better to go sooner
(Divided by, divided by) Than call it all off
We'll catch a plane to New York, and a cab going down
Cross the bridges and tunnels, straight into town
Tomorrow morning we'll be miles away
On another continent and another day
Let's not go home
(Divided by, divided by) Or call it a day
(Divided by, divided by) You won't be alone
(Divided by, divided by) Let's run away
Someone spread a rumor
(Divided by, divided by zero, zero)
(Divided by, divided by) Better to go sooner
(Divided by, divided by) Let's run away
So why hang around for the deed to be done
You can give it all up for a place in the sun
When the postman calls we'll be miles away
On a plane to New York and another day
I think they heard a rumour
(Divided by, divided by) Or someone tipped them off
(Divided by, divided by) Better to go sooner
(Divided by, divided by) Than call it all off
Someone spread a rumour
(Divided by, divided by) And someone has to pay
(Divided by, divided by) Let's not go home
(Divided by, divided by) Let's run away
(Divided by, divided by) Let's not go home
(Divided by, divided by) Let's run away

Aveva ragione Chris Lowe a sostenere che due diviso per zero fa infinito? Oppure erano nel giusto i suoi due amici? La questione è vecchia quanto lo è la nozione dello zero. Il primo testo matematico che parla di questo numero e considera accettabile la divisione per zero è il Brahmasphutasiddhanta del matematico indiano Brahmagupta, vissuto nel VII secolo d.C.: ma le definizioni in esso contenute sono confuse e contraddittorie.
Due secoli dopo, un altro indiano, Mahavira, sostenne nel suo trattato Ganita-sara-sangraha che un numero rimane invariato se viene diviso per zero. Infine, uno dei più grandi matematici della storia, Bhaskara II, anche lui indiano ma vissuto nel XII secolo, propose la tesi che sette secoli dopo sarebbe stata appoggiata da Chris Lowe: dividendo un numero per zero si ottiene un numero speciale chiamato infinito. In realtà tutti e tre gli indiani sbagliavano: vediamo subito il perché.

Supponiamo che dividere un numero per zero sia un’operazione lecita, cioè che tale operazione restituisca un risultato numerico. Sotto questa ipotesi l’espressione 1:0 corrisponde a un qualche numero a, anche se non sappiamo di preciso quale. Allora possiamo scrivere:

 0∙(1:0)=0∙a

Sappiamo che moltiplicando un numero qualsiasi per zero si ottiene zero: quindi il risultato dell’espressione precedente è 0.
Adesso viene il bello: con un semplice passaggio algebrico, infatti, l’espressione 0∙(1:0) può essere riscritta come (0:0)∙1. Siccome abbiamo sdoganato la divisione per zero, anche l’espressione 0:0 è consentita e il suo risultato è 1, visto che dividendo e divisore sono uguali: quindi la nostra espressione è complessivamente uguale a 1.
Ohibò! Il risultato è 0 e allo stesso tempo 1! Com’è possibile? Nella nostra dimostrazione ci deve essere per forza un errore. L’unico passaggio logico che può essere messo in discussione è proprio quello in cui avevamo ipotizzato che avesse senso dividere un numero per zero: per dirla con Vasco Rossi, possiamo concludere che questa operazione un senso non ce l’ha (con buona pace di Brahmagupta, Mahavira, Bhaskara II e Chris Lowe).
(continua)

mercoledì 9 ottobre 2019

"Il mistero del suono senza numero"


Da molto tempo non postavo recensioni di libri su questo blog. Ho pensato di rimediare a questa mancanza dopo aver letto "Il mistero del suono senza numero", dell'amico Flavio Ubaldini, in arte Dioniso, mente poliedrica capace di spaziare in svariati ambiti (è matematico, informatico, musicista, divulgatore, narratore e drammaturgo). Colpevolmente, mi sono deciso tardi a leggere questo coinvolgente romanzo breve: ma meglio tardi che mai, come si dice, perché la lettura si è rivelata una piacevolissima scoperta.

Il fatto è che non è per nulla facile scrivere narrativa, raccontare storie che sappiano trattenere il lettore, creare tensione, colpi di scena, trame non banali. È ancora più difficile farlo inserendo, nelle storie narrate, concetti di matematica, garantendo il rigore e la precisione e al tempo stesso salvaguardando la piacevolezza della lettura. Ancora più arduo è ambientare la propria storia in un'epoca lontana del passato come quella della Magna Grecia del VI secolo a.C., descrivendo situazioni, luoghi, abitudini realisticamente coerenti con tale periodo.
Ebbene, in questo volume, Flavio Ubaldini è riuscito magistralmente a vincere tutte queste sfide, offrendo al lettore una narrazione convincente e piacevolissima. Non dimenticherete facilmente i protagonisti di questa storia: il divino Pitagora, il ribelle Ippaso, l'affascinante Muia, e poi Filolao, Eratocle e tutti gli altri.

Con una perizia da esperto narratore, Ubaldini tratteggia le loro vicende di amicizia, amore, rivalità e passione intellettuale. Sovrapposti all'avvincente trama del romanzo, emergono alcuni dei più importanti enigmi scientifici che tormentarono gli adepti della scuola pitagorica: la relazione tra numeri e suoni, il teorema di Pitagora sui triangoli rettangoli e le sue possibili generalizzazioni, la scoperta dei numeri irrazionali. Ubaldini li espone con sapiente leggerezza, senza appesantire la storia sottostante.

Consiglio questo libro anche a livello didattico, per percorsi interdisciplinari tra storia, filosofia e matematica.

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Flavio Ubaldini
"Il mistero del suono senza numero"
Scienza Express, 2017
144 pagine
ISBN: 978-8896973349

domenica 8 settembre 2019

"Matematica rock" al Festival della Statistica 2019


Anche quest'anno parteciperò al Festival della Statistica e della Demografia, in programma a Treviso dal 20 al 22 settembre.
Domenica 22, alle ore 17, vi aspetto nella suggestiva Loggia dei Cavalieri per una conferenza-spettacolo ispirata al mio libro "Matematica rock", che vedrà la partecipazione di Stefano Zamuner alla chitarra e, novità assoluta, della cantante Giorgia Pramparo.
In questa occasione illustrerò alcuni dei contenuti del libro, inframezzato dai preziosi interventi musicali di Stefano e Giorgia.

Il Festival della Statistica e della Demografia è giunto quest'anno alla sua quinta edizione: attraverso un ricco programma di conferenze, dibattiti, iniziative scientifiche e culturali, laboratori ed eventi d’intrattenimento, il Festival racconta la statistica e la demografia in maniera il più possibile chiara e coinvolgente, sempre però nel rispetto di contenuti di alta qualità.
Il tema 2019 è "Numeri per oggi, numeri per il futuro" e il programma è molto nutrito e interessante.

Non mancate, mi raccomando!

mercoledì 28 agosto 2019

Matematica rock tour



Cari amici di Mr. Palomar, ecco tutti gli appuntamenti del "Matematica rock tour" finora confermati: si tratta delle presentazioni e delle presentazioni-spettacolo del mio libro "Matematica rock" che saranno offerte al pubblico nelle prossime settimane.
Le presentazioni "classiche" (Lovat Villorba, Feltrinelli Verona, Tralerighe Conegliano, Lovat Trieste) vedranno la presenza del sottoscritto e, con l'eccezione dell'incontro di Verona, del chitarrista Stefano Zamuner.
Alle presentazioni-spettacolo (Treviso e Breda di Piave) sarà presente, oltre a Stefano, anche la giovane cantante Giorgia Pramparo.
Accorrete numerosi, io vi aspetto!

venerdì 12 luglio 2019

Chiaro di luna matematico a tempo di rock



Ground Control to Major Tom. 
Ground Control to Major Tom. 
Take your protein pills and put your helmet on. 

Mezzo secolo fa, l'11 luglio 1969, mentre nei negozi di dischi arrivavano le copie del 45 giri di David Bowie "Space Oddity", un altro disco venne recapitato alla NASA.
Quest'ultimo era fatto però di silicio e il suo diametro era di circa 3 cm. Ridotti in formato "microfiche", conteneva 73 messaggi di buona fortuna redatti da altrettanti Capi di Stato (per l'Italia l'allora presidente Saragat) e indirizzati ai tre astronauti che in quelle ore si apprestavano a partire per il viaggio più straordinario mai intrapreso dall'uomo. Il 21 luglio, prima di ripartire verso la Terra, Armstrong e Aldrin lasciarono il disco nel Mare della Tranquillità, dove tuttora giace.

Non è ben chiaro se l'intenzione di Bowie fosse fin dall'inizio quella di far coincidere l'uscita del singolo con i giorni del lancio dell'Apollo 11. Sicuramente, però, grazie alla coincidenza temporale e all'argomento spaziale del testo, "Space Oddity" divenne subito, nell'immaginario comune, una delle più celebri colonne sonore del programma spaziale americano.

C'entra la Luna, ok. Il rock, certo. Ma la matematica? Be', chi segue questo blog e altri simili è ormai abituato a trovare la matematica ovunque, in ogni possibile anfratto. E non si stupirà del fatto che nel mio libro "Matematica rock. Storie di musica e numeri dai Beatles ai Led Zeppelin" che proprio oggi ha fatto la sua comparsa nelle librerie, abbia scovato la matematica anche dentro le parole di "Space Oddity".

Un momento. "Piccolo spazio pubblicità", come diceva Vasco Rossi.
Il libro è uscito nella ormai ricchissima collana Microscopi della casa editrice Hoepli.
Potete acquistarlo nelle librerie oppure online (per esempio qui e qui).
Per ulteriori informazioni, potete consultare questa scheda sul libro e questo comunicato stampa relativo all'uscita del volume.

In questo video ho annunciato l'uscita del mio libro:



Bene: in "Matematica rock" ho citato "Space Oddity" proprio per una piccola particolarità aritmetica:

Ground Control to Major Tom (ten, nine, eight, seven, six).
Commencing countdown, engines on (five, four, three).
Check ignition and may God’s love be with you (two, one, liftoff).

Un countdown, dunque, cioè un conto alla rovescia. Nel primo capitolo del libro parlo di numeri naturali evocati da canzoni rock, a partire dalla primordiale "Rock Around the Clock", e i numeri del pezzo di Bowie sono uno degli esempi più famosi.
Curiosamente, altre tre apparizioni aritmetiche in brani rock risalgono allo stesso fatidico anno lunare 1969 e appartengono alla produzione dei Beatles: ascoltando "Come Together" si viene infatti a sapere che

One and one and one is three

mentre nei testi di "You Never Give Me Your Money" e in "All Together Now" compaiono conte infantili che sono semplicissimi esempi di progressioni aritmetiche:



One, two, three, four, five, six, seven,
All good children go to heaven.



One two three four,
Can I have a little more?
Five six seven eight nine ten,
I love you.

Tornando a "Space Oddity", l'artista inglese ha più volte ammesso di avere composto la canzone in seguito alla forte emozione provata durante la visione del film di Stanley Kubrick "2001: Odissea nello spazio", uscito nel 1968. Inoltre, interrogato sul significato ultimo del testo, il musicista ha rivelato che il concetto dominante è quello del "sentirsi soli". Infine, l'immagine della base di controllo sembra essere una metafora del grembo materno, della casa a cui si desidera fare ritorno.

"Portare, entro la fine del decennio, un uomo sulla Luna e riportarlo sulla Terra" era stato l'impegno chiesto nel 1961 dal presidente Kennedy.
E nel testo di "Space Oddity", Bowie mette in bocca a Major Tom questa malinconica speranza di tornare a casa sano e salvo:

I think my spaceship knows which way to go
Tell my wife I love her very much she knows

Quella "strada verso casa" fa pensare all'incipit di un'altra canzone dei Beatles, sempre del 1969, ovvero "Golden Slumbers":



Once there was a way to get back homeward. 
Once there was a way to get back home. 
Sleep, pretty darling, do not cry
And I will sing a lullaby. 

Si direbbe uno strano corto circuito tra rock, matematica e Luna. Ma non è finita qui.
Il 12 maggio 2013, l'astronauta canadese Chris Hadfield, al termine della sua permanenza come comandante sulla Stazione Spaziale Internazionale, realizzò il primo video musicale girato nello spazio, cantando proprio "Space Oddity":



La suggestiva performance di Hadfield ricorda un'altra poetica connessione tra rock e spazio: il 4 febbraio 2008 la NASA trasmise in direzione della Stella Polare il segnale sonoro della canzone dei Beatles "Across the Universe", per celebrare il cinquantesimo anniversario della fondazione dell'Agenzia Spaziale americana. Ma in che anno fu pubblicato questo brano dei Fab Four? Che domande, sempre nel leggendario 1969, no?



La contaminazione tra la Luna e la musica rock (e, quando possibile, anche la matematica) va oltre i Beatles e Davide Bowie.
Non si contano, infatti, le canzoni ispirate dal fascino della Luna o che, a vario titolo, contengono riferimenti al nostro satellite.

"Moonchild" è uno dei capolavori contenuti nel meraviglioso album dei King Crimson In the Court of the Crimson King (ormai non serve nemmeno che sottolinei che anche questo disco uscì nel 1969).
Nel video seguente potete ascoltare la prima parte del pezzo.



L'album "lunare" più famoso di sempre è, ovviamente, The Dark Side of the Moon dei Pink Floyd (finalmente cambiamo anno, passando dal 1969 al 1973).
Anche qui non si incontrano soltanto rock e Luna, ma si inserisce anche la matematica.
Nel mio e-book "La matematica dei Pink Floyd" del 2014 avevo raccontato alcuni di questi punti di contatto.
In "Matematica rock" i risvolti matematici della produzione floydiana (al di là dell'album del 1973) vengono analizzati sotto punti di vista nuovi: vi invito a leggere il libro per scoprirli.
Nel libro troverete molto altro, e spero che vi divertirete a leggerlo così come io mi sono divertito a scriverlo.
Buon cinquantenario lunare, e buona #matematicarock a tutti!

martedì 2 luglio 2019

Matematica rock: un sogno dentro un sogno

Atto primo, scena prima. Verona, anni Ottanta. Un adolescente è intento a leggere un saggio di divulgazione di Isaac Asimov: forse Il collasso dell'universo, oppure Civiltà extraterrestri, o un altro ancora. Ha già letto diversi saggi di Asimov, quel ragazzo (che poi sono io trent'anni fa): e tutti con lo stesso grande piacere. Mentre legge, sogna. Sogna di diventare, un giorno, come Asimov, e di scrivere anche lui libri divulgativi così belli.

Atto primo, scena seconda. Primi anni Duemila, un ufficio di una multinazionale, un pc, un telefono collegato a una noiosa (per me) conference call alla quale partecipano, oltre a me, vari colleghi al di qua e al di là dell'Atlantico. Si sta svolgendo l'attività proposta da uno dei componenti del gruppo di lavoro: una specie di gioco di team building, che dovrebbe servire a rafforzare lo spirito di squadra e a migliorare l'efficienza della collaborazione.
A un certo punto, nel corso del gioco, viene chiesto a ciascuno dei partecipanti di dire che cosa vorrebbe essere in futuro. Ecco, tocca a me. Non ho tempo per pensarci e rispondo di getto: I'd like to be a writer.

Atto secondo, scena prima. Gennaio 2014. Esce l'e-book La matematica dei Pink Floyd, scritto da quel ragazzo che leggeva Asimov e partecipava alle noiose conference calls. Ho realizzato il sogno? No, o per lo meno non del tutto. Quel saggio è esclusivamente digitale. Inoltre è breve. Un as-saggio, insomma, anche se il successo sarà sorprendente, con più di mille copie vendute. Ma c'è ancora molta strada da fare.

Atto secondo, scena seconda. Oggi, 2 luglio 2019. Mancano esattamente dieci giorni. Il 12 luglio uscirà Matematica rock, il mio primo libro cartaceo. Il coronamento di un'idea che ho coltivato per anni. Ora sì che posso considerare esauditi il mio sogno degli anni Ottanta e quello degli anni Duemila. Sono profondamente grato alla prestigiosa casa editrice Hoepli, che ha creduto fin da subito al mio progetto e ha apprezzato il mio lavoro. Matematica rock entrerà a far parte della famosa collana Microscopi.

Di cosa parla il mio libro? Be', lo spiego nell'introduzione:
Questo è soprattutto è un libro che racconta storie: storie di band che si formano e si sciolgono, di canzoni famosissime nate da colpi di genio, di testi enigmatici, di provini e di sessioni di registrazione passate alla storia, di errori e di litigi, di rock star che sono anche geni matematici e di professori di matematica che diventano pop star. Storie in cerca di un finale e finali che arrivano grazie alla matematica.


Già, perché il mondo della musica rock è davvero pieno di storie. Io mi sono divertito molto a cercarle, a scoprirle e a raccontarle. E il bello è che molte di queste storie, incredibile a dirsi, richiamano argomenti matematici.

Dal mondo aritmetico di “Rock Around the Clock” all'idea di usare i numeri primi per rendere perfetto e trascinante il ritmo di “We Will Rock You” dei Queen, dalle vertigini autoreferenziali di  “I Feel Fine” dei Beatles al mistero dell’accordo iniziale di “A Hard Day’s Night”, entrambi chiariti grazie alla matematica, dai numeri di Fibonacci usati dai Genesis alla geometria del celebre quarto album dei Led Zeppelin, passando anche per i Coldplay, per i Radiohead e per molti altri gruppi e artisti: le storie sono tante e preziose per affrontare la matematica con un approccio originale.

Ecco cos'è il libro. Un viaggio insolito alla scoperta della matematica in un’ambientazione rock. Ho raccolto i 14 capitoli in quattro parti tematiche (aritmetica e algebra, statistica e calcolo combinatorio, geometria e topologia, analisi), ma non immaginatevi un tradizionale libro di matematica.
Il libro è già prenotabile, per esempio qui oppure qui (e in tutti gli altri negozi online).

Se il mio antico sogno è stato realizzato, non è certo il momento di smettere di sognare.
Per restare in tema rock, potrei far mio il monito degli Aerosmith: "Dream on", ovvero "Continua a sognare".
Per esempio, sogno che qualcuno, leggendo il mio libro, faccia come quel ragazzo degli anni Ottanta, ovvero sogni anche lui di diventare, un giorno, uno scrittore.
"Un sogno dentro un sogno", insomma, per citare Poe (e, lo scoprirete, anche il titolo di uno dei capitoli del mio libro).
Buona matematica rock a tutti!

giovedì 23 maggio 2019

La matematica delle scale musicali: la storia continua

Molti anni fa, agli albori di questo blog, pubblicai tre post che trattavano un argomento che considero molto attraente: la storia delle scale musicali viste da una prospettiva prevalentemente matematica.
Ecco i titoli e i link di quegli articoli:
Pitagora e la scoperta della musica
Pitagora e il cerchio che non si chiude
La scala "naturale" da Tolomeo a Zarlino

Gli articoli riscossero un notevole entusiasmo (per il primo ricevetti addirittura i complimenti della celebre cantante Antonella Ruggiero, che si disse attenta lettrice di questo blog). Tuttavia, per vari motivi la serie non proseguì oltre il terzo episodio.
In anni successivi, avevo però ripreso l'argomento della matematica delle scale musicali in un'altra serie di articoli, questa volta pubblicata sul sito di XlaTangente, un'iniziativa curata da Matematita, il Centro Interuniversitario di Ricerca per la Comunicazione e l'Apprendimento Informale della Matematica, con sede principale presso il Dipartimento di Matematica dell'Università di Milano.
Gli articoli andarono a confluire in una rubrica, intitolata "Matematica e... musica". Riporto qui i riferimenti ai sette articoli, sperando di fare cosa gradita ai miei lettori:
Parte 1: dal monocordo agli intervalli musicali
Parte 2: la costruzione della scala Pitagorica
Parte 3: tono, limma e... logaritmi
Parte 4: un cerchio che non si chiude
Parte 5: Zarlino e la scala naturale
Parte 6: La scala naturale e i suoni armonici
Parte 7: Largo alle terze e alle seste!

Ebbene, dato che è sempre un peccato lasciare una cosa a metà, e anche se è passato molto tempo, riprenderò la saga della matematica delle scale musicali e pubblicherò su questo blog alcuni nuovi post.
Attendevi, quindi, cari lettori, un quarto capitolo riguardante i difetti della scala naturale tolemaico-zarliniana. A presto!

domenica 12 maggio 2019

Newton e Treviso: una storia di attrazione fatale

Isaac Newton (1642-1727)
Come forse qualcuno di voi sa, io sono veronese, ma da ormai una dozzina d’anni vivo nei pressi di Treviso. Ebbene, il capoluogo della Marca è una città molto "matematica" per diversi motivi. Per esempio, ha legato il suo nome al più antico libro di matematica pubblicato a stampa in Occidente: Larte dell'abbacho, noto anche come L'aritmetica di Treviso, è un manuale di autore ignoto, pubblicato a Treviso nel 1478 in lingua volgare veneta, che insegnava ai mercanti a risolvere problemi di aritmetica applicata al commercio. Tornerò su questo importantissimo libro in un mio futuro post.

Esiste un altro legame tra Treviso e la scienza: o forse una storia di attrazione fatale. Al centro della vicenda c'è una delle più grandi menti di ogni epoca: il matematico e fisico inglese Isaac Newton. Che cosa c'entra il padre dell'analisi infinitesimale e della meccanica classica con la città di Giovanni Comisso e di Altan?
Il frontespizio dei Philosophiae Naturalis
Principia Mathematica
di Newton

Il 5 luglio 1687 Newton pubblicò i Philosophiae Naturalis Principia Mathematica: un trattato monumentale suddiviso in tre libri, che costituisce una delle più alte vette del pensiero scientifico di tutti i tempi. Con quest'opera il genio britannico enunciava, in un colpo solo, tre teorie di enorme importanza (ne sarebbe bastata anche una soltanto per attribuire fama imperitura al suo autore): le tre leggi della dinamica classica, la legge di gravitazione universale e le fondamenta di una nuova matematica, il calcolo infinitesimale.
In particolare, questa branca della matematica introduceva il concetto di variazione infinitesima, cioè piccolissima, di una grandezza. Negli stessi anni in cui Newton gettò le basi di questa teoria, anche un altro grande pensatore, il tedesco Gottfried Wilhelm von Leibniz, ebbe un'intuizione equivalente: ciò avrebbe dato origine, negli anni successivi, a una delle dispute di paternità più feroci della storia della scienza.

Grazie al calcolo infinitesimale, comprendente il cosiddetto calcolo differenziale e il calcolo integrale, gli scienziati furono finalmente in grado di descrivere in modo più preciso fenomeni fisici che in precedenza erano sfuggiti a una rappresentazione quantitativa rigorosa. La stessa dinamica newtoniana e la teoria della gravitazione si basavano sui concetti di questa matematica nuova. Nei secoli successivi il calcolo infinitesimale si sviluppò moltissimo, fino a diventare oggi il pilastro fondamentale che sostiene tutte le discipline scientifiche e ingegneristiche.

Jacopo Riccati (1676-1754)
Verso la fine del Seicento, l’opera di Newton si diffuse anche in Italia. Uno dei primi a leggerla e, cosa non certo scontata, a capirla, fu Jacopo Riccati, il diciottenne rampollo di una famiglia aristocratica di Castelfranco Veneto. Riccati era iscritto alla facoltà di legge dell’Università di Padova, ma il suo vero interesse era la matematica, e per questo seguiva le lezioni di padre Stefano degli Angeli, matematico e astronomo gesuita. Grazie all’incoraggiamento dell’anziano frate, Riccati diventò rapidamente uno dei principali divulgatori delle nuove idee matematiche e scientifiche newtoniane in Italia, contribuendo così a contrastare l’immobilità e la chiusura che dominavano il panorama scientifico dell’epoca in buona parte della Penisola. La fama di Riccati come illustre matematico si estese rapidamente in tutta Europa, soprattutto grazie ai suoi carteggi con i più grandi scienziati dell’epoca.
Con la nascita del calcolo infinitesimale, nacque in particolare un nuovo tipo di problema matematico: la risoluzione di equazioni differenziali. In un'equazione differenziale l'incognita da determinare è una funzione, che compare nell'equazione stessa anche sotto forma di sue derivate.
Riccati fu uno dei pionieri di questo settore e il suo nome venne legato a una particolare equazione differenziale da lui studiata, oggi centrale nella fisica quantistica e nell’automazione: si tratta di un'equazione differenziale ordinaria quadratica nella funzione incognita, ovvero del tipo


Riccati è famoso anche per la sua indole riservata, causa primaria di alcuni clamorosi "grandi rifiuti". Per esempio l’università di Padova gli propose una cattedra come professore di matematica, ma lui declinò l'offerta. Da Vienna gli giunse la nomina a Consigliere Aulico presso la corte imperiale, ma lui oppose un nuovo rifiuto. Lo zar Pietro il Grande gli offrì addirittura la presidenza dell’Accademia Imperiale delle Scienze di Pietroburgo, ma ancora Riccati preferì non allontanarsi dal Veneto.

Il frontespizio del trattato Opticks  pubblicato nel 1704 da Isaac Newton
A dispetto della sua modestia, Riccati fu un intellettuale dagli interessi vastissimi: oltre che di matematica e fisica, si occupò anche di scienze naturali, biologia, storia, questioni giuridiche, poesia e letteratura, religione, filosofia e perfino archeologia. Ogni ramo dello scibile umano era da lui studiato con notevole profondità. Le sue opere, pubblicate dal figlio Giordano dopo la sua morte, riempiono circa 2000 pagine, ma costituiscono solo una parte della sua sterminata produzione (restano esclusi infatti i carteggi, i manoscritti e altri lavori). Grazie all'opera di Jacopo Riccati e a quella dei suoi figli Vincenzo, Giordano e Francesco (che eccelsero nell'architettura, nella musica e nella matematica), la Marca trevigiana fu interessata nel Settecento da una grande vivacità culturale che va sotto il nome di "Schola riccatiana".

Se Riccati era un newtoniano convinto, un altro aristocratico trevigiano dell’epoca, Giovanni Rizzetti, architetto, matematico e fisico nato a Castelfranco Veneto nel 1675, ne era un fiero detrattore. In particolare Rizzetti compì, a partire dal 1716, una serie di esperimenti di ottica i cui risultati erano decisamente in contrasto rispetto a quelli riportati dal grande scienziato inglese nel suo trattato Opticks del 1704.

La celebre copertina di The Dark Side
of the Moon
dei Pink Floyd (1973)
Nel 1727, proprio mentre Isaac Newton moriva a Londra, Rizzetti dava alle stampe il suo trattato principale sull'ottica, intitolato De luminis affectionibus specimen physico mathematicum, nel quale prendeva le distanze dalle teorie dello scienziato inglese e in particolare dalla teoria corpuscolare della luce, sostenuta da Newton in opposizione alla visione ondulatoria di Christiaan Huygens. Tra gli esperimenti ottici descritti da Rizzetti vi era quello celebre della dispersione luminosa mediante un prisma di vetro: la luce solare bianca che viene separata nei suoi colori costitutivi per effetto dei diversi angoli di rifrazione associati alle diverse frequenze.
Già, proprio il fenomeno raffigurato nella celebre copertina dell’album The Dark Side of the Moon dei Pink Floyd.

Le conclusioni antinewtoniane di Rizzetti trovarono sostegno presso alcuni autorevoli scienziati del tempo, tra i quali Nicolaus Bernoulli e lo stesso Jacopo Riccati. L'orientamento dominante della comunità scientifica del tempo era però a favore della dottrina newtoniana: non stupisce quindi che molti intellettuali criticarono il trevigiano e lo tacciarono di arroganza per aver osato dissentire dal grande fisico britannico. A un certo punto lo stesso Newton venne a conoscenza di questo attacco alle sue teorie: convinto che si trattasse di un complotto ordito intenzionalmente contro di lui, bollò i suoi autori, Rizzetti in primis, come “amici del signor Leibniz” (il riferimento era all'odiato pensatore tedesco con il quale era in corso la controversia per la paternità del calcolo infinitesimale).

Francesco Algarotti (1712-1764)
La città di Treviso è legata a Newton anche per una terza vicenda collegata alle precedenti e a un incontro galante avvenuto nel 1734 a Londra.La storia inizia però nel 1728 e il suo protagonista è un sedicenne conte veneziano, Francesco Algarotti. Questo brillante giovane era dotato di interessi culturali vastissimi, di grande fascino intellettuale e, fatto non trascurabile, anche di un aspetto fisico attraente. Aveva studiato a Roma e a Bologna, dove aveva approfondito le nuove teorie esposte da Isaac Newton.
Convinto che le teorie antinewtoniane di Rizzetti fossero errate, Algarotti si propose di smontarle in pubbliche dimostrazioni. In particolare, il giovane veneziano si diceva d'accordo con la tesi sostenuta dallo scienziato inglese John Theophilus Desaguliers, già assistente di Newton, secondo la quale Rizzetti aveva ottenuto risultati fallaci perché aveva utilizzato prismi fabbricati a Venezia, molto peggiori di quelli provenienti dall'Inghilterra. Tra i sostenitori di Rizzetti si diffuse allora uno slogan ironico: “Le teorie di Newton funzionano solo con i prismi inglesi”.
Ma probabilmente Desaguliers e Algarotti erano nel giusto ed effettivamente i prismi veneziani erano di qualità molto inferiore a quelli di oltremanica.

Frontespizio del saggio di Algarotti
Il newtonianesimo per le dame 
Dopo il periodo di studio bolognese Algarotti si spostò a Firenze, e poco dopo cominciò a viaggiare per l’Europa, tessendo relazioni con molte personalità dell’epoca come Voltaire, i poeti inglesi Alexander Pope e Thomas Gray, il violinista Giuseppe Tartini, Metastasio, Federico II di Prussia. La feroce disputa tra il veneziano e il trevigiano proseguì per molti anni, a suon di scritti beffardi pubblicati dall’uno contro l’altro.
Incoraggiato proprio da questo lungo litigio, Algarotti decise di scrivere un saggio per diffondere e sostenere le idee di Newton e dileggiare Rizzetti, e lo pubblicò nel 1737 con il titolo Il newtonianesimo per le dame ovvero Dialoghi sopra la luce e i colori: in esso le teorie del grande scienziato inglese vengono esposte sotto forma di una conversazione salottiera che si svolge in una località del lago di Garda tra una marchesa e un suo corteggiatore.
Nonostante il suo stile lezioso e sdolcinato (la forza di gravità viene paragonata alla passione amorosa, che si affievolisce con la lontananza), il libro riscosse un grandissimo successo in tutta Europa. In un periodo nel quale dominava l'entusiasmo quasi fanatico per le teorie newtoniane, uno dei pochi intellettuali e restarne immune fu, curiosamente, proprio Jacopo Riccati, che pure era stato tra i primi divulgatori dell'opera del grande inglese. Scrisse il matematico trevigiano:

"So bene che al giorno d'oggi molti Valentuomini si affaticano a gara per illustrare la Fisica Neutoniana; e ci è stato chi ha preteso di renderla familiare per fino alle Dame; ed io non defraudando della debita lode gli sforzi altrui, sono persuaso, che molto ci sia da delucidare, e qualche cosa forse da correggere."

Rizzetti reagì agli attacchi di Algarotti giustificandolo sarcasticamente ("Si vede che questa opposizione è da giovane"), e pubblicando nel 1741 il Saggio dell’Antinewtonianismo sopra le leggi del moto e dei colori, dove prese le distanze non soltanto dall'ottica, ma anche dalla dinamica newtoniana.

Catherine Barton (1679-1739)
La storia della nobildonna corteggiata da un brillante erudito non nasceva dal nulla, ma era sicuramente autobiografica. Numerose donne, infatti, non seppero resistere al grande fascino di Algarotti e alla sua brillante personalità: e una delle sue vittime, a quanto pare, fu nientemeno che la nipote dello stesso Sir Isaac Newton.
Catherine Barton era la seconda figlia di Robert Barton e della sua seconda moglie, Hannah Smith, sorellastra dello scienziato.
Era una donna molto bella, intelligente e brillante nella conversazione. Pare che molti intellettuali, tra cui Voltaire e Jonathan Swift, si fossero innamorati di lei.
Sposò in prime nozze il conte e poeta Charles Montagu e nel 1717 il politico John Conduitt, e accudì lo zio Isaac negli ultimi anni della sua vita.

La donna aveva 55 anni quando fu avvicinata dal ventiduenne Francesco Algarotti nel corso di uno dei suoi soggiorni londinesi.
È probabile che il nobile veneziano mise a frutto le sue famose doti di seduttore e in cambio convinse la dama a regalargli tre prismi a sezione triangolare che Newton aveva utilizzato per i suoi celebri esperimenti di ottica. Probabilmente furono proprio questi i prismi con i quali Algarotti poté ripetere pubblicamente gli esperimenti di Rizzetti e replicare i risultati di Newton, confutando definitivamente le tesi del trevigiano.
Alla morte di Algarotti gli strumenti entrarono a far parte del fondo dei manoscritti dell’erudito veneziano; nel 1879 furono acquistati dall’abate trevigiano Luigi Bailo, punto di riferimento della cultura della sua città alla fine dell’Ottocento e all’inizio del Novecento, e a lungo direttore della Biblioteca Comunale e del Museo Civico.

Questi tre prismi sono conservati ora proprio nel Museo Civico di Treviso, intitolato a Bailo.
Ecco la conclusione della storia che lega Sir Isaac Newton alla città di Treviso. La cassetta di legno che custodisce i tre prismi riporta l’iscrizione “I. N. P. F. A. 1734”, ovvero “Isaac Newton Present Francesco Algarotti”, che ricorda l’incontro tra Algarotti e Catherine Barton.
Insomma, se nella loro città sono custoditi tre reliquie newtoniane così preziose, i trevigiani devono ringraziare, oltre a Bailo, anche il dotto Riccati, che creò nella Repubblica di Venezia dell’epoca un contesto scientificamente al passo coi tempi, il polemico Rizzetti, che attirò sulla questione newtoniana l’attenzione di molti, e soprattutto il brillante Algarotti, che spinto dal desiderio di mostrare la sua superiorità intellettuale e il suo fascino di rubacuori, portò i prismi in Veneto.


Letture consigliate:
- "Aspetti della società e della cultura di Treviso nel Settecento e nell'Ottocento", a cura di Valeria Favretto.
- "Cultura e scienza nella Marca del Settecento: la Schola Riccatiana" di Giorgio T. Bagni.

domenica 3 marzo 2019

Archimede

Con emozione e orgoglio vi ricordo che l'ultimo numero della prestigiosa rivista di matematica Archimede ospita un mio articolo, intitolato "Mozart matematico" e riguardante le connessioni tra il grande compositore salisburghese e i numeri.
L'articolo mostra come Mozart tenesse in grande considerazione la matematica, e fosse stato in particolare un cultore della teoria della probabilità. Inoltre il pezzo contiene diversi spunti di riflessione anche in chiave didattica.
Dal prossimo numero avrò l'onore di figurare tra i collaboratori della rivista.

Potete trovare alcune informazioni su questo numero all'indirizzo https://riviste.mondadorieducation.it/archimede/rivista/4-2018.
Nelle pagine collegate potete scoprire anche come fare per abbonarvi alla rivista.

Archimede è una rivista trimestrale di notevole importanza nell'ambito della matematica italiana. È stata fondata nel 1902 da Alberto Conti come Il bollettino di matematica. Nel 2016 la rivista ha subito un rinnovamento, sotto la direzione di Roberto Natalini. Destinata agli insegnanti e ai cultori di matematiche pure e applicate, Archimede è ricca di articoli, rubriche e spunti per ulteriori approfondimenti. Il periodico rappresenta una risorsa preziosa per i docenti alla ricerca di interessanti aggiornamenti e di validi supporti alla didattica.

mercoledì 30 gennaio 2019

La bellezza della matematica al Dolomiti in Scienza

Una formula matematica può essere bella?
In post come questo ho cercato di mostrare che sì, alcune formule, alcuni teoremi, alcuni celebri risultati della matematica possono essere considerati belli, soprattutto perché al tempo stesso semplici e sorprendenti.
L'identità di Eulero, e= -1, è un po' la Juventus della bellezza matematica: la troviamo quasi sempre al primo posto di questo particolare genere di classifiche.

Non è facile dare una definizione di bellezza in matematica. Un secolo fa ci provò il celebre matematico Godfrey H. Hardy, e propose che una formula è bella se è:
1) imprevedibile, ovvero sorprendente (si potrebbe dire quasi "magica");
2) inevitabile, ovvero "questo teorema è bello perché non poteva che essere così";
3) economica, ovvero semplice ed essenziale.

Sabato 9 febbraio parlerò dell'identità di Eulero e di bellezza matematica a Belluno, nell'ambito della rassegna "Dolomiti in Scienza" organizzata dal Gruppo Divulgazione Scientifica Dolomiti.
L'evento si svolgerà nella sala teatro del Centro Giovanni XXIII in piazza Piloni, con inizio alle ore 17.
Se vorrete intervenire (l'ingresso è gratuito, ovviamente), vi racconterò, tra le altre cose, chi era quel supereroe della matematica che risponde al nome di Leonhard Euler (per noi italiani più noto come Eulero) e quali sono gli ingredienti matematici che si trovano mescolati in quel delizioso cocktail noto come identità di Eulero.
Vi aspetto numerosi!

domenica 20 gennaio 2019

L'amore breve e il lungo oblio: Neruda e le funzioni bi-esponenziali

"È così breve l'amore, e così lungo l'oblio."

Così scriveva Pablo Neruda in "Poema 20", una delle sue poesie più celebri, compresa nella raccolta "Veinte poemas de amor y una canción desesperada" del 1924.
Cinque ricercatori del MIT Media Lab, della Northeastern University di Boston e della UDD di Santiago in Cile, hanno utilizzato questa toccante citazione all'inizio di un articolo pubblicato il mese scorso sulla rivista Nature Human Behavior, con il quale hanno proposto alcune interessanti novità sullo studio matematico delle dinamiche della memoria collettiva e dell'attenzione.

I risultati della ricerca sono stati sintetizzati in questo video:


Gli studiosi hanno analizzato in particolare come varia nel tempo il grado di attenzione e di considerazione collettiva nei confronti dei prodotti culturali, come possono essere canzoni, film, romanzi biografici, articoli scientifici e brevetti.

Gli scienziati hanno trovato una legge universale, che descrive il calo di attenzione e di memoria in modo molto simile a quello descritto poeticamente da Neruda: una prima fase (l'"amore breve"), che è caratterizzata da un'attenzione collettiva molto intensa e da un decadimento molto rapido dell'attenzione, e una seconda fase (il "lungo oblio"), in cui l'attenzione è più bassa ma decade molto più lentamente. I matematici chiamano questo tipo di andamento "bi-esponenziale".

Due sono i canali che, secondo i ricercatori, sostengono la memoria collettiva e l'attenzione: la comunicazione orale (ovvero la memoria comunicativa) e la registrazione fisica delle informazioni (ovvero la memoria culturale). La memoria comunicativa è dominante nella prima fase, per intenderci quella dell'amore romantico intenso e breve cantato da Neruda, mentre la memoria culturale è determinante nella seconda fase, quella che irrimediabilmente e lentamente conduce verso l'oblio.

giovedì 17 gennaio 2019

A volte ritornano



Eh sì, a volte ritornano: anche i blog... e i blogger.
Spero che i visitatori di Mr. Palomar non si siano lasciati confondere dalla citazione che costituiva l'ultimo post, risalente ormai a quattro mesi fa: "Io odio l'algebra", frase attribuita a John Conway.
No, tranquilli: non ho abbandonato il mio blog perché ho cominciato a odiare la matematica. Proprio perché continuo ad amarla, ho sentito il bisogno forte di far rivivere queste pagine, trascurate per troppo tempo a causa dei molti impegni professionali.
Non prometto niente, ma credo proprio che un silenzio così prolungato non si verificherà più.
Ben ritrovati, quindi, cari amici: buon 2019 a tutti, e a molto presto!

La top ten dei miei video su YouTube (1° posto)

Rullo di tamburi! Eccoci finalmente in vetta! E, devo dire, la vetta della classifica dei miei video su YouTube appare per il momento davver...