martedì 14 novembre 2017

Carnevale della Matematica #113

Mamma mia!

Benvenuti al Carnevale della Matematica numero 113, il sesto ospitato da Mr. Palomar.
Ultimamente questo blog è stato un po' latitante: possa questo appuntamento carnevalizio costituire un nuovo inizio e un motivo di rinnovata vitalità tra queste pagine.
Il tema della presente edizione è "Matematica sorprendente". Ma, si sa, da sempre il tema è rigorosamente facoltativo, e giustamente molti dei contributi hanno preferito non seguirlo.

Com'è diventata ormai un'usanza, ho aperto con il verso della Poesia Gaussiana corrispondente al numero 113. Essendo tale numero primo, ho l'onore di utilizzare questa espressione per la prima volta nella storia dei Carnevali. Non solo: mi pare che l'esclamazione "Mamma mia!" ben si adatti al tema scelto, che parla di sorpresa.
Flavio Ubaldini, in arte Dioniso Dionisi, mi ha inviato la cellula melodica, e mi ha segnalato che, grazie all'idea di Zar, adesso possiamo estendere la cellula anche ai numeri primi un po' più grandi, come 113 appunto.



Se alla cellula melodica "ufficiale" volete affiancare qualcosa di più "pop", eccovi accontentati.
Difficilmente possiamo leggere l'esclamazione "Mamma mia!" senza pensare al celeberrimo brano degli ABBA, uscito nell'aprile 1975 all'interno dell'album "ABBA", e come singolo nel novembre dello stesso anno.



Curiosamente, nello stesso anno, precisamente il 31 ottobre, uscì il singolo dei Queen "Bohemian Rhapsody", nel cui passaggio centrale ispirato all'opera, spiccano i celebri versi "Mamma mia, mamma mia, mamma mia let me go!"


E veniamo ad alcune delle principali proprietà matematiche del numero 113.
Si tratta, come già sottolineato, di un numero primo, il trentesimo per la precisione. Ma i matematici lo definiscono anche numero "omirp", perché le sue cifre, scritte al contrario, formano un altro numero primo (311).
È anche un numero difettivo, in quanto maggiore della somma dei suoi divisori propri.
Fa parte delle terne pitagoriche (15, 112, 113) e (113, 6384, 6385).
È pure un numero malvagio (il significato di questa proprietà è stato chiarito in un mio vecchio post, nonché nella precedente edizione del Carnevale).

Tralasciando molte altre proprietà matematiche di questo numero, aggiungo che ovviamente in Italia esso corrisponde al numero telefonico della Polizia di Stato, ma soprattutto è la targa dell'automobile di Topolino.

A questo punto possiamo partire con i contributi.
Ad aprire le danze è Dioniso Dionisi, alias Flavio Ubaldini, che dal suo blog Pitagora e dintorni segnala un post in due parti: Dedekind, il suo taglio e la soluzione del problema Ippaso: prima parte Dedekind, il suo taglio e la soluzione del problema Ippaso: seconda parte
Il post, ricorda Flavio, nasce dal fatto che un paio di lettori non matematici del suo libro "Il mistero del suono senza numero" gli hanno chiesto delucidazioni sul Taglio di Dedekind, ragion per cui il buon Dioniso ha deciso di scrivere una spiegazione, cercando di renderla il più discorsiva e il meno tecnica possibile.
Ubaldini segnala anche un altro suo articoletto, intitolato Un regalo pitagorico-coltraniano.

Annalisa Santi, autrice del blog Matetango, mi segnala Hailstone.....dagli abissi ai numeri.
Mi scrive Annalisa:
Dato che "Matematica sorprendente" è il tema del Carnevale della Matematica del mese di novembre, ho quindi cercato qualcosa che "sorprendesse"!
Curiosamente legate alla parola "hailstone" (grandine), sorprendenti mi sono d'apprima sembrate le immagini della Truck Lagoon creatasi dopo un attacco statunitense, "Operation Hailstone", a una base giapponese e di cui assolutamente ignoravo l'esistenza (si è sempre parlato quasi esclusivamente dell'attacco di Pearl Harbor!) e quindi la "hailstone sequence" (l'indimostrata a tutt'oggi congettura di Collatz), nonché, in conclusione del mio post, il recentissimo tentativo di due matematici italiani di dimostrarla.

Leonardo Petrillo, dal suo blog Scienza e musica, contribuisce con Di elementi e ponti degli asini, un post che introduce la storia della geometria, focalizzandosi sulla struttura dei fondamentali Elementi di Euclide, per poi concludere con l'analisi di ciò che viene spesso chiamato "pons asinorum".
Afferma Leonardo:
La relazione con la tematica portante del Carnevale ("Matematica sorprendente") potrebbe in un certo senso starci considerando la sorpresa nello scoprire, innanzitutto, gli interessanti progressi storici che hanno portato alla maestosa opera di Euclide e, soprattutto, nel collegamento di un termine così particolare come "ponte degli asini" con l'opera geometrica per eccellenza.

I sempre generosi Rudi Mathematici mi inviano una bella manciata di contributi provenienti dall'illustre blog de Le Scienze:
- Il Quick& Dirty fisico con le bollicine che risalgono, che fa ancora divertire tutti;
- Un bel PM del Capo, dal titolo Lunghe passeggiate, che riprende i sei gradi di separazione;
- Il compleanno di Felix Hausdorff, preferito e richiesto da Popinga, con riferimenti dalla chimica alla poesia;
E sempre i magnifici Rudi segnalano quello che loro definiscono il loro "miracolo mensile", ovvero l'uscita dell'edizione 226 della loro gloriosa rivista, che non è ancora uscita, ma non si sa mai, e che quando uscirà starà qui.

Non può esserci Carnevale senza i contributi di MaddMaths! Eccoli qui di seguito, generosissimi come sempre, partendo da quelli "sorprendenti" (a giudizio di Roberto Natalini).

Il 1 Novembre nell'ambito di Lucca Comics&Science, è stato presentato il nuovo albo Comics&Science, edito da CNR Edizioni e curato come sempre da Roberto Natalini e Andrea Plazzi. Che differenza c’è tra un papiro e una pergamena? Che cos’è un palinsesto? In quale modo nell’antichità si conservavano i testi scritti? Sono domande importanti per la trasmissione della scienza e del sapere, sullo sfondo dello straordinario Archimede 2.0 di Giuseppe Palumbo. La storia appassionante e vera fino all’ultimo dettaglio di come le scoperte del genio di Siracusa sono arrivate sino a noi. E Comics&Science non è solo fumetti. C’è infatti anche un ricco apparato di commenti. Roberto Natalini e Andrea Plazzi ci introducono alla storia del palinsesto perduto di Archimede. Ciro Ciliberto, Presidente dell'Unione Matematica Italiana, intervista Giuseppe Palumbo. Andrea Ercolani, filologo classico del CNR, ci guida nella storia di come certi testi sono giunti a noi, e Vito Mocella, fisico del CNR, su come siamo capaci oggi, con l'uso del sincrotrone, a leggere manoscritti antichissimi, nel suo caso dei papiri di Ercolano, altrimenti perduti. Un albo da non perdere.

Laure Saint-Raymond è una matematica francese che lavora sulle equazioni a derivate parziali, la meccanica dei fluidi e la meccanica statistica. È professoressa presso l'École Normale Supérieure de Lyon. Nel 2008 le è stato assegnato il premio EMS e nel 2013, quando aveva solo 38 anni, è diventata il più giovane membro dell'Academie des Science. Vi riproponiamo la traduzione italiana dell’intervista fatta da Roberto Natalini per la Newsletter della European Mathematical Society.

Sandra Lucente continua ad esplorare le dimensioni dello spazio, e adesso è arrivata alla quarta. Dove finirà il suo viaggio?

Arriva la matematica su Topolino Comic&Science Nel 2016 si avvia un progetto di divulgazione scientifica su Topolino curato dagli sceneggiatori Disney Francesco Artibani e Fausto Vitaliano in collaborazione con vari scienziati italiani. Il primo novembre è apparsa una storia a sfondo matematico, al cui soggetto ha collaborato il matematica Alberto Saracco.

Il film documentario “Galois. Storia di un matematico rivoluzionario”, ideato e scritto da Giuseppe Mussardo con la regia di Diego Cenetiempo, è stato proiettato in anteprima esclusiva italiana venerdì 27 ottobre 2017 presso il cinema Ariston di Trieste. Ce ne parla Elena Rinaldi.

Traduzione libera di Barbara Nelli dell’articolo "Comment réduire une sphère sans changer les distances" di Clément Dufrenne et Sean Bailly, apparso su Pour la Science. Far entrare la terra dentro una pallina da ping-pong, conservando le distanze tra i punti, sembra impossibile e invece un’équipe di ricercatori francesi, matematici e informatici è riuscita a realizzare quest’impresa.

Il 30 settembre scorso è morto Vladimir Voevodsky. Simone Borghesi, che ha collaborato con lui, ha scritto qualcosa su di lui.

Un ampio ramo della matematica – il trasporto ottimo – si occupa di ottimizzazione nel caso di trasporto di un materiale. Due sono gli esempi classici: lo spostamento della sabbia da una cava ad un cantiere e la distribuzione del pane dai forni ai negozi, al mattino. Una scheda Madd-Spot di Annalisa Massaccesi. La serie è curata da Emiliano Cristiani.

A cominciare dalla sua prima uscita del 2016, Archimede ospita Archimedia, una rubrica di fumetti e altri media curata da Andrea Plazzi. Nel n. 3/2017 trovate "Lo spettro dell’incomunicabilità", un fumetto di Tuono Pettinato. Qui sul sito presentiamo come al solito la prefazione di Andrea Plazzi, ma voi non perdetevi il fumetto all'interno di Archimede 3/2017.

Per la rubrica "Esperienze transdisciplinari di Matematica" vi proponiamo un nuovo contributo di Gianluigi Boccalon, realizzato in collaborazione con la Maria Paola Nicosia e Ileana Pretotto, che racconta come strumenti di tipo logico-matematici (come i diagrammi di flusso) possano essere efficacemente utilizzati nell'insegnamento delle lingue straniere.

Un altro pilastro della storia del Carnevale, Roberto Zanasi, mi invia, dal suo blog Gli studenti di oggi, un pezzo intitolato Trascendenza, che ruota attorno ad alcune domande. Perché la quadratura del cerchio è impossibile? Perché il geomètra non ritrova il principio ond'elli indige?

Il padre fondatore del Carnevale, Maurizio .mau. Codogno, ha scritto sul Post un rapido necrologio di Corrado Böhm, (sì, tendenzialmente è più un informatico, ma essendo stato informatico teorico di matematica dietro ce n'è comunque tanta) e Una volta ogni cent'anni, in cui spiega come la probabilità che ti capiti qualcosa che avviene una volta al secolo è molto meno bassa di quello che potrebbe sembrare.
Dalle Notiziole, Codogno segnala alcuni quizzini della domenica: Il quinto elementoPrimo e quadratoRicoprimenti Che ora è? e Ricorsione mancata.
Per quanto riguarda invece le recensioni: A cosa serve la matematica, manualetto che però non ha detto molto al recensore; Giocati dal caso, il libro che Nassim Taleb ha scritto prima de "Il cigno nero" e che secondo me è meglio del best seller per capire davvero il pensiero del nostro; Le vite segrete dei numeri, che più che altro parla di curiosità legate ai numeri ma non alla matematica.

Mauro Merlotti, dallo Zibaldone Scientifico, contribuisce con la (credo nota) Costante di Kaprekar.
Mi scrive Mauro:
Scoperta da Kaprekar nel 1949, riguarda la curiosa proprietà del numero 6174, che ricorre come risultato finale di una serie di semplici operazioni con i numeri di quattro cifre (purché non siano tutte uguali). Si sceglie un numero di 4 cifre, che vengono poi ridisposte per ottenere il numero più grande e quello più piccolo che si possono comporre. Infine, si sottrarre il numero più piccolo dal più grande per ottenere un nuovo numero e si continua ripetendo l'operazione per ogni nuovo numero ottenuto. Non so perché (e questo è per me sorprendente), ma, dopo pochi passaggi, si arriva sempre a 6174.

Infine, Gianluigi Filippelli, dal suo blog Dropsea, segnala Essere umani, recensione dell'omonimo libro di Brian Christian sull'intelligenza artificiale, il Premio Loebner, Claude Shannon, Alan Turing e gli scacchi, e 2048 Fibonacci: su una variazione del famoso 2048 ma con la serie di Fibonacci
Dal Caffé del Cappellaio Matto, invece, Gianluigi invia I ponti di Quackenberg: su Topolino #3232 una storia ispirata ai sette ponti di Konigsberg. Un breve articolo sul problema, risolto da Leonhard Euler e la storia pubblicata su Topolino e realizzata con la consulenza del matematico Alberto Sacco.


Questo è tutto. Un grande grazie a chi ha contribuito. Evviva il Carnevale della Matematica, che tornerà a dicembre sulle Notiziole di .mau. Buona lettura a tutti.


venerdì 9 giugno 2017

Le auree sonate per pianoforte di Mozart

Che Mozart sia stato uno dei più grandi compositori di ogni tempo lo sappiamo, e un'affermazione come questa suona quasi ovvia e scontata. Ma che il buon Amadeus fosse un appassionato di matematica quasi patologico, be', questo non tutti lo sanno.
Mi piace pensare che l'amore di Mozart per il pensiero matematico abbia avuto un influsso determinante sulla sublime e inarrivabile grandezza delle sue opere: quasi a certificare che, in fin dei conti, la musica altro non è che matematica sotto mentite spoglie.
L'ossessione di Mozart per la matematica cominciò in tenera età (da un enfant prodige come lui vi aspettavate forse qualcosa di diverso?). La sorella Nannerl riferì che Wolfgang, durante gli anni della scuola, "non pensava e non parlava d'altro che di figure geometriche".
Secondo alcune testimonianze, un giorno il tenero fanciullo ebbe l'idea di scrivere numeri col gesso su tutte le pareti di casa. Passò poi alle sedie, ai tavoli e al pavimento. Una volta riempite tutte le superfici disponibili, fece lo stesso nelle case dei vicini.
In una lettera alla sorella datata 19 maggio 1770, il quattordicenne Wolfgang scrive:
"Vi ringrazio di avermi mandato questi Rechenstorien, e vi prego di mandarmi ancora un poco di questi Kunsten"
Il riferimento è a un libro di aritmetica e algebra di tale Josef Spengler, intitolato “Anfangsgründe der Rechenkunst und Algebra“, ovvero "Rudimenti di aritmetica e algebra". Evidentemente la sorella aveva allegato ad una sua lettera qualcuno degli esercizi proposti dal libro, e il giovane Mozart aveva trovato grande diletto nella loro risoluzione.
L'attrazione di Mozart per la matematica non svanì con l'età adulta. Di questo abbiamo infatti almeno due prove, che sembrano anche indicare un particolare interessamento del grande compositore per il calcolo delle probabilità.
Ecco la prima prova.

I margini (nella figura qui sotto, in basso e a sinistra) del manoscritto di una sua composizione del 1782, la «Fantasia e fuga in do maggiore» K394 sono riempiti di calcoli per trovare la probabilità di vincere una lotteria.

E la seconda? Be', della seconda vi ho parlato in un post dedicato al gioco musicale dei dadi.
Non posso non ricordare come questo gioco, dai risvolti matematici e probabilistici molto interessanti, abbia anche divertito decine di spettatori lo scorso ottobre al Festival della Statistica di Treviso, dove assieme al pianista Giancarlo Panizzo ho raccontato queste e altre amenità musical-matematiche nello spettacolo "Un, due... re! Giocando a dadi con Mozart" (stay tuned: i giochi mozartiani torneranno al Festival in autunno).

Un ulteriore indizio della fascinazione del genio salisburghese per la matematica va in direzione diversa: non più la teoria delle probabilità, ma la sezione aurea.
Cos'è la sezione aurea? In breve: immaginate di prendere due bastoncini, quello più corto di lunghezza A, e quello più lungo di lunghezza B. Supponiamo che A stia a B come B sta alla somma delle lunghezze A+B. Se sussiste questa particolare relazione, il rapporto tra le due lunghezze B e A è uguale a un numero circa uguale a 1,618, che viene indicato solitamente con la lettera greca φ ("phi") e viene chiamato "sezione aurea" o "rapporto aureo" o "numero aureo".

Nemmeno questo interesse mozartiano per il rapporto "divino", già amato dagli antichi e da Leonardo da Vinci, deve stupire. Se una caratteristica emerge con chiarezza dalle composizioni di Mozart, questa ha che fare con l'equilibrio strutturale, con una perfezione della forma che sembra tradursi immediatamente in bellezza ed emozione. Come affermò il critico Hanns Dennerlein, Mozart possedeva un senso innato delle proporzioni.

Un esempio sorprendente di questo lo troviamo nelle sue 19 sonate per pianoforte. La struttura classica, in auge ai tempi di Mozart, prevede tre movimenti: solitamente un allegro come primo movimento, un lento (adagio, andante o qualcosa di simile) come secondo, e un movimento di chiusura che spesso è un allegro o un presto. In questo format standardizzato, ognuno dei movimenti (quasi obbligatoriamente il primo, opzionalmente gli altri due) poteva a sua volta essere strutturato secondo la cosiddetta "forma sonata", che prevedeva tre parti:
1. l'esposizione, in cui viene presentato il tema musicale principale;
2. lo sviluppo, in cui il tema viene espanso e rielaborato;
3. la ripresa, in cui il tema iniziale viene rivisitato in chiave di finale.
Per comodità, farò riferimento a due parti: l'esposizione e l'unione tra sviluppo e ripresa. Ebbene, qualcuno si è preso la briga di analizzare numerosi movimenti delle sonate per pianoforte di Mozart (più o meno quelli strutturati in forma sonata) e per ognuno misurare la durata delle sue due parti.

John F. Putz
Lo studioso che ha eseguito questa ricerca con maggiore accuratezza è stato John F. Putz, un matematico dell'Alma College del Michigan. I suoi risultati furono pubblicati sul numero di ottobre 1995 della rivista Mathematics Magazine, della Mathematical Association of America.
Putz ricorda che un giorno il figlio, musicista, gli parlò della struttura delle sonate per pianoforte di Mozart. Ricordando di aver letto qualcosa sulla propensione del musicista austriaco per l'equilibrio e l'eleganza formale, il matematico si mise al lavoro per verificare se si poteva riscontrare qualche pattern matematico nella suddivisione dei movimenti di queste composizioni.
Nella tabella seguente sono riportati i movimenti analizzati da Putz e, per ognuno, il numero di battute musicali della prima parte e quello della seconda parte. Si noti che il numero di battute è, di solito, un'ottima approssimazione della durata: sotto l'ipotesi che il tempo musicale resti invariato nel corso dello stesso movimento, il numero di battute è proporzionale alla durata in secondi.


Il risultato ottenuto da Putz è molto interessante: il rapporto tra la durata della seconda parte (sviluppo+ripresa) e quello della prima parte (esposizione) è spesso aureo, cioè molto vicino al numero ϕ ≈ 1,618: un po' come il rapporto tra le due dimensioni di una carta di credito.
Per le proprietà della sezione aurea, ciò significa che anche il rapporto tra la durata complessiva di un movimento e la durata della seconda parte è circa aureo.

Prendiamo il caso emblematico del primo movimento della Sonata n. 1 per pianoforte K 279. L'esposizione dura 38 battute, mentre sviluppo e ripresa si estendono per 62 battute. In totale il movimento ha 100 battute. Ora, il modo migliore di dividere in sezione aurea due 100 battute è proprio metterne 38 da una parte e 62 dall'altra. Infatti 62 diviso 38 è circa 1,63 e 100 diviso 62 è circa 1,61. Se Mozart avesse fatto durare l'esposizione una sola battuta in più e la seconda parte una battuta in meno, il risultato sarebbe stato molto meno aureo: 61/39 ≈ 1,56 e 100/61 ≈ 1,64.
Coincidenza? Risultato intenzionale? Non lo sappiamo.

Ma anche gli altri movimenti analizzati mostrano proporzioni simili. Con un software specializzato ho provato a ripercorrere l'analisi effettuata da Putz, ritrovando perfettamente i risultati da lui ottenuti.
Putz provò a rappresentare graficamente la durata (in battute) della seconda parte di ogni movimento in funzione della durata (in battute) dell'intero movimento. Il risultato è illustrato nella figura seguente (in ordinata la durata della seconda parte, in ascissa la durata totale).



Gli statistici chiamano "grafico di dispersione" un diagramma come questo. Il fatto che i punti risultano più o meno concentrati su una linea retta dimostra che esiste una relazione approssimativamente lineare tra le due durate in gioco.
Nella figura seguente è mostrata la linea retta che meglio d'ogni altra rappresenta questa relazione tra durata della seconda parte del movimento e durata totale.

Grafico di dispersione che mostra la relazione tra il numero di battute della seconda parte (sviluppo+ripresa) in ordinata e il numero di battute del movimento complessivo in ascissa


La retta rappresentata si dice retta di regressione.
Le tecniche di regressione sono metodi molto usati dagli statistici per trovare la relazione (lineare o non lineare) che legano due grandezze per le quali abbiamo a disposizione una certa quantità di misurazioni numeriche.
In questo caso le due grandezze (durata della seconda parte e durata totale) risultano legate da una relazione quasi perfettamente lineare.
Questo è in linea con quanto riportato sopra: il rapporto tra la durata totale e la durata della seconda parte è circa costante e circa uguale al numero aureo ϕ ≈ 1,618. Questo rapporto corrisponde all'inverso della pendenza, cioè del coefficiente angolare, della retta di regressione.

Gli statistici sono soliti utilizzare un indicatore, detto coefficiente di correlazione, per misurare la bontà dell'approssimazione lineare individuata. Il coefficiente può variare da un valore 0 (nessuna correlazione lineare tra le due grandezze) e un valore 1 (correlazione lineare perfetta).
Nel caso in esame il coefficiente di correlazione risulta uguale a 0,99.

Sulla base di questi risultati, sembrerebbe lecito concludere che Mozart abbia suddiviso i suoi movimenti utilizzando consapevolmente la sezione aurea. Ma Putz non si accontentò di questo esito, e rappresentò su un altro grafico di dispersione la durata della prima parte (esposizione) in funzione della durata della seconda parte (sviluppo+ripresa).
Il risultato è mostrato nella figura seguente (in ordinata la durata della prima parte, in ascissa la durata della seconda parte).


Com'è facile riconoscere, i punti appaiono questa volta più sparpagliati. La figura seguente mostra la retta di regressione.

Grafico di dispersione che mostra la relazione tra il numero di battute della prima parte (esposizione) in ordinata e il numero di battute della seconda parte (sviluppo+ripresa) in ascissa

In questo caso il coefficiente di correlazione risulta pari a 0,938: ancora alto, ma non altissimo come prima. Come si spiega questa differenza?
Putz ha dimostrato che, quando il rapporto tra due numeri B ed A (con 0 ≤ A ≤ B) è vicino, ma non uguale, alla sezione aurea (come accade in ciascuno dei nostri movimenti mozartiani, in cui i due numeri A e B sono rispettivamente le durate della prima e della seconda parte), si ha necessariamente che il rapporto (A+B)/B è più aureo del rapporto B/A. Per chi è interessato, la dimostrazione può essere trovata su questa pagina.

Alla fine di tutta la discussione, una domanda resta aperta: Mozart ha composto le sue magnifiche sonate per pianoforte adoperando intenzionalmente la sezione aurea, o la proporzione osservata da Putz è un puro caso? Lo stesso studioso americano, a sorpresa, conclude la sua analisi affermando che con ogni probabilità il grande compositore non utilizzò consapevolmente il rapporto divino.
Ma questo è del tutto opinabile. In ogni caso, credo sia ragionevole pensare che la struttura matematica di queste composizioni non sia unicamente frutto del caso, e che l'attrazione fatale che legò Mozart ai numeri rivesta, in questa storia, un ruolo determinante.

venerdì 26 maggio 2017

Gli enigmi di Coelum: I dadi di Platone

Nel numero 184 di Coelum ho parlato di solidi platonici.
I solidi che portano il nome del celebre discepolo di Socrate sono dei poliedri: in altre parole, appartengono alla grande famiglia dei solidi delimitati da un numero finito di facce piane poligonali.
Non sono però dei poliedri qualsiasi: hanno la caratteristica di avere come facce poligoni regolari, tutti uguali tra di loro, e inoltre hanno tutti i vertici e gli spigoli equivalenti. Sono, per così dire, l’analogo dei poligoni regolari in versione 3D (non a caso vengono spesso denominati poliedri regolari, o solidi regolari).
Ma c’è una differenza sostanziale, e, per così dire, affascinante: mentre i poligoni regolari sono infiniti (per ogni numero intero N esiste un poligono regolare con N lati), i solidi platonici sono solo cinque. Questi cinque poliedri portano nomi suggestivi, che derivano dal greco: tetraedro, esaedro (o cubo), ottaedro, dodecaedro e icosaedro.
Dato che in greco έδρα significa “base”, è facile comprendere l’etimologia di questi nomi: un tetraedro è un poliedro con 4 facce, un esaedro ne ha 6, un ottaedro 8, un dodecaedro 12 e un icosaedro 20.

I cinque solidi platonici 

Osservate che ognuno dei solidi regolari può essere convertito nel suo duale: basta trasformare le facce in vertici e i vertici in facce. Sottoposto a questa metamorfosi, il tetraedro resta invariato, avendo 4 facce e 4 vertici. Il cubo, invece, diventa un ottaedro, e viceversa. Il dodecaedro si tramuta in un icosaedro, e così anche all’inverso.

Caratteristiche dei cinque solidi platonici 
Perché i solidi platonici sono soltanto cinque? Davvero non ne esistono altri?
Ai tempi di Platone, cioè nel IV secolo a.C., si intuiva già che i solidi regolari fossero cinque, ma nessuno lo aveva ancora dimostrato rigorosamente. Nel suo dialogo “Timeo”, il filosofo ateniese descrisse i solidi regolari, e ne associò quattro agli elementi fondamentali dell’universo: il tetraedro al fuoco, il cubo alla terra, l’ottaedro all’aria, l’icosaedro all’acqua. Il quinto solido, il dodecaedro, venne fatto corrispondere alla forma dell’universo nella sua totalità.
 Circa un secolo e mezzo dopo, il grande matematico Euclide riuscì a provare che i solidi regolari sono soltanto i cinque descritti da Platone, e che non ce ne sono altri.

La "Scuola di Atene" di Raffaello Sanzio, affresco conservato al Vaticano. Platone è la figura centrale con il mantello rosso, mentre Euclide è (probabilmente) il personaggio chino in basso a destra, intento a tracciare cerchi su una tavoletta 

Una dimostrazione intuitiva può essere compresa senza grande sforzo.
Prima di tutto, osserviamo che in un qualsiasi poliedro, ogni vertice è il punto di incontro di almeno tre facce: infatti due facce si possono incontrare su uno spigolo, ma non possono formare un vertice. Inoltre, queste tre o più facce devono essere poste su piani diversi, perché se giacessero sullo stesso piano formerebbero in realtà una faccia sola, e non tre. Di conseguenza, la somma dei tre o più angoli che si incontrano in un vertice deve essere inferiore a 360°. Infatti, se fosse esattamente 360°, le facce sarebbero sullo stesso piano, mentre una somma angolare più bassa consente al punto di incontro di “alzarsi”, creando un vertice.
Ricordando che le facce del solido devono essere poligoni regolari, vediamo quali possono essere questi poligoni.

Certamente potrebbero essere triangoli equilateri. Ogni angolo di un triangolo equilatero è ampio 60°: quindi in un vertice del solido potrebbero incontrarsi 3 facce triangolari formando un angolo di 3 × 60° = 180° < 360°, oppure 4 facce triangolari formando un angolo di 4 × 60° = 240° < 360°, oppure 5 facce triangolari formando un angolo di 5 × 60° = 300° < 360°. Con 6 facce saremmo invece fuori, perché uscirebbe un angolo di 6 × 60° = 360°: troppo perché il vertice possa “alzarsi”.
Le facce potrebbero anche essere quadrati, in cui ogni angolo è di 90°. In ogni vertice del solido potrebbero infatti convergere 3 facce quadrate, a creare un angolo di 3 × 90° = 270° < 360°: già con 4 facce l’angolo sarebbe di 4 × 90° = 360°, quindi da escludere.
Infine, potremmo utilizzare come facce pentagoni regolari, nei quali ogni angolo è di 108°. Ogni vertice del solido potrebbe essere allora punto di incontro di 3 facce pentagonali, formando un angolo di 3 × 108° = 324° < 360°: con 4 facce saremmo invece oltre i limiti consentiti (4 × 108° = 432° > 360°).
Non potremmo invece utilizzare facce esagonali, perché in un esagono ogni angolo è di 120°, e già 3 facce formerebbero un angolo di 360°, che contribuirebbe a tassellare il piano, senza poter elevare un vertice del solido. Poligoni con più lati sono ancora peggiori, perché con sole 3 facce creerebbero angoli più grandi dell’angolo giro.

Le possibilità che abbiamo individuato sono quindi soltanto cinque:
  • 3 facce triangolari che si incontrano in ogni vertice: è il caso del tetraedro, che ha 4 facce triangolari e 4 vertici; 
  • 4 facce triangolari che si incontrano in ogni vertice: è il caso dell’ottaedro, che ha 8 facce triangolari e 6 vertici; 
  • 5 facce triangolari che si incontrano in ogni vertice: è il caso dell’icosaedro, che ha 20 facce e 12 vertici; 
  • 3 facce quadrate che si incontrano in ogni vertice: è il caso del cubo o esaedro, che ha 6 facce e 8 vertici; 
  • 3 facce pentagonali che si incontrano in ogni vertice: è il caso del dodecaedro, che ha 12 facce e 20 vertici. 
I solidi platonici forniscono lo spunto per comprendere e approfondire molti argomenti di interesse matematico, ma sono anche modelli straordinariamente utili per la realizzazione di oggetti per giocare: in particolare dadi e palloni. Ciascuna di queste due tipologie di manufatto richiede attenzioni particolari nel processo di costruzione: a meno che non vogliamo fregare qualcuno, un dado deve innanzitutto essere equo, cioè tutte le sue facce devono avere la stessa probabilità di uscire durante un lancio, mentre un pallone deve essere il più possibile simile a una sfera.

Cominciamo dai dadi. I solidi platonici, evidentemente, grazie alla loro forma simmetrica, caratterizzata da facce regolari e uguali, e da vertici e spigoli equivalenti, costituiscono ottimi modelli di dadi equi. Per gli appassionati di Dungeons and Dragons ciò non rappresenta una sorpresa: per questo gioco vengono infatti utilizzati dadi la cui forma riflette quella dei cinque dadi platonici.

Ma l’uso di dadi platonici non è certo un fatto recente. Negli anni Venti del secolo scorso, l’archeologo inglese Leonard Wooley fece un curioso ritrovamento all’interno delle tombe reali dell’antica città sumera di Ur: alcune tavole da gioco anticamente utilizzate per il cosiddetto Gioco Reale di Ur, l’antenato del moderno backgammon.

Copia della tavola da gioco ritrovata nelle tombe di Ur,
con tre dadi tetraedrici
Come è visibile nella figura, la particolare scacchiera era formata da un rettangolo 8 × 3 privato di due caselle esterne su ciascuno dei lati lunghi. Ciascuno dei due giocatori utilizzava 7 pedine e 3 dadi a forma di tetraedro con le punte smussate. In ciascun dado, due dei quattro vertici erano marcati, affinché ogni lancio potesse produrre due possibili esiti, a seconda che il vertice rivolto verso l’alto fosse marcato o no.
In pratica gettare un dado era come lanciare una moneta e vedere se è uscita testa oppure croce.

Il regolamento del gioco non è stato del tutto chiarito. Pare comunque che ogni giocatore dovesse partire da una delle caselle e arrivare a una casella terminale, determinando il numero di caselle percorse a ogni turno mediante il lancio dei dadi. La collisione con un pezzo avversario costringeva l’altro giocatore a ripartire dall’inizio.
I simboli speciali disegnati su alcune caselle provocavano eventi particolari, come il pagamento o il ritiro di una posta.

Ma, oltre ai cinque platonici, ci sono altri solidi che possono essere sfruttati per costruire dadi equi? Ebbene sì: i matematici hanno scoperto che ne esistono in particolare altri venti, oltre a cinque famiglie formate ciascuna da un numero infinito di dadi equi.
E i palloni? Concentriamoci sui palloni da calcio (anche se si potrebbe scrivere forse un libro intero considerando la geometria di tutti i tipi di palle utilizzate nei vari sport).

Il problema della costruzione un pallone di cuoio per giocare a calcio è il seguente: non è possibile costruire una sfera perfetta (come invece si deve fare per le palline da ping pong), ma si deve cercare di approssimare una sfera cucendo insieme pezzi di cuoio.
Inoltre, è comodo che i pezzi di cuoio siano tutti uguali, ed è ancora più comodo se questi pezzi vengono prodotti come poligoni regolari. Ecco quindi che i solidi platonici tornano utili anche in questo caso: preparando, per esempio, pezzi di cuoio a forma di triangolo equilatero si possono poi cucire tra di loro per realizzare una palla tetraedrica oppure ottaedrica oppure icosaedrica. Una volta il pallone viene gonfiato d’aria, le spigolosità si smussano, ottenendo qualcosa di vagamente simile a una sfera. È chiaro però che più sono le facce del solido più il pallone risulterà vicino a una forma sferica.

Il pallone Telstar dell'Adidas
Ecco perché l’icosaedro è il modello platonico storicamente preferito dai costruttori di palloni da calcio. Ai mondiali messicani del 1970 l’Adidas presentò il suo mitico pallone Telstar, ottenuto da un icosaedro spianando i vertici: la forma risultante, il familiare pallone a esagoni bianchi e pentagoni neri, è ciò che i matematici chiamano icosaedro troncato, e che i chimici hanno ritrovato in una molecola di carbonio chiamata buckminsterfullerene, appartenente alla vasta famiglia dei fullereni. Il nome Telstar fu scelto per la somiglianza con l’omonimo satellite artificiale posto in orbita geocentrica e utilizzato nelle telecomunicazioni a partire dagli anni Sessanta.

Anche alcuni modelli più recenti di palloni da calcio si rifanno ai solidi platonici: il Brazuca dei Mondiali 2014 in Brasile è topologicamente un cubo, così come lo era il pallone dei primi Mondiali, quelli del 1930, mentre il Teamgeist, pallone ufficiale dei Mondiali tedeschi del 2006 vinti dall’Italia, era un ottaedro troncato.

I solidi platonici sono sempre stati fonte di ispirazione per molti artisti. Piero della Francesca, che non fu soltanto un pittore, ma anche un matematico, era ossessionato dai solidi regolari: uno dei suoi trattati, il “De quinque corporibus regularibus”, era dedicato escludivamente a questi suggestivi poliedri, che all’artista interessavano ovviamente anche per il loro rapporto con il disegno e con le arti figurative.
Nell’articolo del numero 184 ricordavo come anche Leonardo Da Vinci realizzò moltissime illustrazioni inerenti ai solidi platonici, che furono pubblicate nel libro “De divina proportione” del frate matematico Luca Pacioli.

Nel 1955, il grande pittore surrealista Salvador Dalì realizzò una “Ultima cena” che stravolge i canoni dell’iconografia tradizionale. La scena è inserita all’interno di un grande dodecaedro, il solido regolare che Platone aveva associato alla perfezione dell’universo nel suo complesso. Nel descrivere il dipinto, Dalì parlò di una “cosmologia aritmetica e filosofica basata sulla sublime paranoia del numero dodici”. Sicuramente non è un caso che il numero delle facce del dodecaedro, 12, sia uguale al numero degli apostoli.

“Ultima cena” di Salvador Dalì (1955), olio su tela conservato alla National Gallery di Washington

Un altro artista del Novecento che ha sfruttato a fini figurativi il fascino dei solidi platonici è stato l’olandese Maurits Cornelis Escher, autore di celebri costruzioni impossibili e di disegni geometrici di grande fascino. La sua famosa litografia “Cascata” mostra un piccolo villaggio caratterizzato da costruzioni paradossali, in cui dell’acqua sembra scorrere in salita. Sulla sommità delle due torri poggiano due grandi solidi, oggi noti come poliedri di Escher, la cui forma si può ottenere intrecciando tra di loro tre ottaedri.

“Cascata”, litografia di
Maurits Cornelis Escher (1961)
L’enigma del numero 184 descriveva un particolare dado tetraedrico, sulle cui facce sono indicati quattro numeri interi, che godono di alcune proprietà:
 • sono tutti diversi tra di loro;
 • sono tutti numeri primi;
 • uno dei quattro numeri ha una sola cifra;
 • ognuno degli altri tre numeri ha due cifre, la seconda delle quali è 3;
 • lanciando il dado, la somma dei numeri visibili dà sempre un numero primo.
I lettori erano invitati a determinare i numeri interi riportati sulle quattro facce del tetraedro. La soluzione dell’enigma non era unica: anzi, ce n’erano ben cinque.
Alcuni lettori sono stati bravi a indicarle tutte, anche se per considerare vinta la sfida era sufficiente individuarne una. Le soluzioni erano le seguenti:
 • 5, 13, 23, 43
 • 5, 13, 43, 53
 • 5, 13, 43, 83
 • 7, 13, 23, 53
 • 7, 23, 73, 83

Non vi era un metodo particolare per individuare le soluzioni del problema: un approccio praticabile era quello per “forza bruta”, cioè per enumerazione e verifica delle possibili quaterne, da attuare a mano oppure con l’ausilio della potenza di calcolo di un computer (molti lettori, per esempio, si sono serviti di un foglio elettronico, strumento molto servizievole in casi come questo).

martedì 23 maggio 2017

I Premi Turing: John Warner Backus

Uno dei più celebri e utilizzati linguaggi di programmazione è stato (ed è) sicuramente il FORTRAN. Non poteva non aggiudicarsi il Premio Turing uno come John Warner Backus, creatore non solo del FORTRAN, ma anche, assieme al danese Peter Naur, di una fortunata notazione per definire le sintassi di linguaggi formali.
Nato a Filadelfia il 3 dicembre 1924, Backus non fu certo uno studente modello. Nel 1942 si iscrisse a chimica all'Università della Virginia, ma a causa della sua scarsa performance venne espulso dopo pochi mesi. Dopo un periodo di arruolamento nell'esercito, Backus frequentò alcuni corsi universitari di medicina, ma anche in questo caso non li portò a termine, trovando gli argomenti di studio poco stimolanti. Per di più, in questo periodo gli venne diagnosticato un tumore osseo al cranio, che fortunatamente gli fu rimosso senza gravi conseguenze.
Il giovane John si trasferì a New York, con idee molto confuse sul suo futuro. Cominciò a interessarsi di elettronica e, conseguentemente, di matematica. Si iscrisse quindi alla Columbia University e nel 1949 si laureò. L'anno dopo entrò alla IBM, dove il suo primo compito fu scrivere programmi per il Selective Sequence Electronic Calculator (SSEC).
Finalmente aveva trovato la sua strada.
Uno dei principali utilizzi del SSEC era il calcolo di tabelle di effemeridi astronomiche. Le tecniche di programmazione ideate da Backus in quegli anni sarebbero state impiegate anni dopo dalla NASA per il programma Apollo.
A quei tempi, scrivere programmi informatici significava inanellare, una dopo l'altra, migliaia di istruzioni a livello macchina. Un lavoro estremamente difficile, ad alto rischio di errori. Per facilitare il compito, nel 1953 Backus inventò Speedcoding, il primo linguaggio di alto livello della storia: le operazioni sui numeri a virgola mobile potevano essere descritte in una forma più semplice e veloce.

Un IBM 704 in uso alla NASA nel 1957
La IBM aveva lanciato nel 1954 il modello 704, il primo computer prodotto in serie dotato di una unità di calcolo in virgola mobile, e Backus si offrì di creare un linguaggio che avrebbe reso facile programmarlo.
Gli fu assegnato un team di dieci programmatori, che dopo un anno produsse una prima versione delle specifiche del linguaggio IBM Mathematical FORmula TRANslating System, ovvero del FORTRAN.
Il primo compilatore FORTRAN venne ufficialmente rilasciato nel 1957: consisteva di più di 25.000 righe di codice macchina, e venne incluso in tutti i modelli 704 venduti dalla IBM in quegli anni.
Col passare degli anni il FORTRAN venne progressivamente perfezionato e si guadagnò presto la posizione del linguaggio di programmazione più utilizzato per le applicazioni scientifiche.

Uno dei linguaggi che furono sviluppati sulla base del FORTRAN fu l'ALGOL: Backus prese parte alle riunioni di definizione, e fu nell'ambito di questo progetto che lo stesso Backus propose l'utilizzo della forma che prende il suo nome e quello del collega danese Peter Naur. La forma di Backus-Naur è una notazione formale per descrivere qualsiasi linguaggio di programmazione libero dal contesto, ed è particolarmente utile nello sviluppo di nuovi compilatori.

Fu grazie a questi straordinari risultati che John Backus fu insignito nel 1977 del Premio Turing.
Nella lezione che tenne in occasione della consegna del premio, Backus affermò:

I linguaggi di programmazione sembrano oggi in difficoltà. Ogni nuovo linguaggio incorpora, con qualche piccolo miglioramento, tutte le caratteristiche dei suoi predecessori e qualcuna di nuova. [...] Ogni nuovo linguaggio sostiene di avere nuove e affascinanti caratteristiche... ma la verità è che pochi linguaggi rendono la programmazione abbastanza economica e affidabile da giustificare il costo di produrre e imparare nuovi linguaggi.

Sulla base di questa sua affermazione, Backus indicò un nuovo paradigma di programmazione, denominato "function-level", che avrebbe dovuto sostituire il tradizionale approccio "value-level".
La programmazione "function-level" non va confusa con la programmazione funzionale (quella che si ritrova nel Lisp, ma anche in R, Wolfram Mathematica e Python). Nel paradigma tradizionale (value-level) si scrive un programma che viene applicato ai dati di input in modo da produrre una successione di valori intermedi che, alla fine, culmina nel valore finale desiderato. Nel paradigma function-level, invece, si parte da un programma iniziale che è sempre lo stesso per ogni computazione, e si applicano alcune operazioni "program-forming", o "funzionali", che producono una successione di programmi intermedi, fino a culminare nel programma finale desiderato.
Sempre nel 1977 Backus propose un esempio di linguaggio "function-level", chiamato FP, che rimane il prototipo dei linguaggi di questa categoria. Negli ultimi anni della sua carriera cercò di sviluppare un successore di FP, denominato FL. La fortuna di questo paradigma fu tuttavia molto modesta, e rimase confinata nell'ambito accademico-didattico.
Backus terminò la sua lunga carriera in IBM nel 1991, e morì nel marzo del 2007, trent'anni dopo aver ricevuto il premio Turing.

mercoledì 26 aprile 2017

Gramellini, la matematica e la memoria

Nella rubrica del Corriere della Sera intitolata "Il caffè", Massimo Gramellini ci dispensa ogni giorno una pillola di saggezza delle sue. Spesso le riflessioni gramelliniane sono argute e azzeccate, ma talvolta stonano un poco.
Nella tazzina di oggi, intitolata "Maturità alla memoria", il noto giornalista affronta il tema della verifica scritta di matematica prevista come seconda prova dell'esame di stato del liceo scientifico. La notizia da cui Gramellini prende le mosse è descritta in un altro articolo del Corriere: un gruppo di studenti lancia una petizione sul sito Change.org, per chiedere al Ministero dell'Istruzione l'abolizione del divieto di utilizzare formulari durante la prova di matematica, in analogia con quanto avviene durante i compiti di italiano, in cui è consentito l'uso di dizionari.

Ecco un passaggio della petizione:
"Ci sembra più che anacronistica l’assenza di un formulario scientifico nell’elenco degli strumenti utilizzabili. A nostro parere una prova di maturità dovrebbe valutare le capacità e le competenze che lo studente ha sviluppato nel corso dei suoi studi senza che la 'forza bruta' della memoria filtri l’effettiva validità di tali capacità, le quali dovrebbero risiedere nell’abilità di analisi, riconoscimento e di risoluzione di determinati problemi specifici, e non nella difficoltà di ricordare a memoria formule e procedure sistematiche non inerenti alle competenze, ma al puro immagazzinamento di pratici mezzi di risoluzione".
Il Ministero, nella persona del sottosegretario Vito De Filippo, ha respinto la richiesta (che nel frattempo aveva trovato un sostegno politico in un esponente del Movimento 5 Stelle), fornendo motivazioni a mio parere abbastanza ragionevoli e condivisibili.

Nel suo Caffè, Gramellini plaude alla decisione ministeriale, ribadendo l'importanza della memoria nella crescita dei nostri ragazzi e profetizzando che il governo "perderà in blocco il voto dei diciottenni, perché nel Paese dei balocchi e degli 'aiutini' chi promette scorciatoie risulta ovviamente più simpatico dei cultori della fatica".
E fin qui nulla di strano, o di criticabile. Il fatto è che Gramellini si perde poi in un elogio compiaciuto, e a suo stesso dire "conservatore", della memoria, quasi che imparare la matematica si riducesse, in un ultima analisi, nella memorizzazione di una lunga lista di "regole" e di formule, da applicare acriticamente per risolvere i problemi. Lasciamo perdere il passaggio in cui l'editorialista se la prende con i computer e quello in cui impreca contro il Sessantotto: il punto fondamentale sul quale, secondo me, vale la pena di riflettere è l'immagine falsata che molte persone, Gramellini compreso, hanno della matematica.

Il mio professore di Analisi 1 e di Analisi 2 all'università, del quale ho già raccontato qualche aneddoto, spiegava che lui le "formule" mica le sapeva tutte a memoria. "Però me le so ricavare", diceva.
Il fatto è che saper ricavare una formula, o, detto in maniera più appropriata, dimostrare un teorema, richiede di aver capito quel teorema. Ecco il punto. È giusto proibire l'uso dei formulari durante la prova della maturità perché l'essenza della matematica non può essere condensata in un bignami di formule pronte all'uso. Ed è giusto far capire ai ragazzi (per lo meno agli studenti del quinto anno del liceo scientifico) che ciò che conta non è mandare a memoria la regoletta, ma comprendere, il più profondamente possibile, il "mondo" che sta attorno a quella regoletta: in questo modo, dovesse la regoletta scomparire dalla memoria, è agevole ricavarla nuovamente proprio perché è stato compreso il ragionamento associato.

Se uno studente impara a memoria, senza alcuno sforzo di capirne il senso ultimo, la formula del quadrato del binomio:
corre ovviamente il forte rischio di dimenticarla nel momento della necessità. Ma se lo studente si spinge appena al di là della scatola nera della formula, e si ricorda (ecco una forma più "nobile" di memoria) che elevare un oggetto al quadrato significa moltiplicare quell'oggetto per se stesso, sarà immediato arrivare a scrivere:

e quindi


Ecco che la formula viene ricavata anche se lì per lì era stata dimenticata. Di fatto lo studente ha dimostrato un teorema. E cos'è la matematica se non dimostrare teoremi?

L'uso della memoria che Gramellini sembra caldeggiare per imparare la matematica è un utilizzo acritico e nozionistico, l'esatto contrario di quello che serve davvero. Un po' come imparare a memoria poesie senza capire cosa vogliono dire. Può essere utile, certo, per allenare la memoria, ma allora tanto varrebbe esercitarsi con l'elenco telefonico. Se si tratta di imparare davvero la matematica, forse è il caso di provare a capirla, e non solo di memorizzare "regole", anche perché alla lunga questo esercizio sterile finirebbe per fare odiare questa disciplina, e nasconderebbe gli aspetti più gratificanti.

Certo, non si può pretendere che tutti capiscano (tutta) la matematica. Per qualcuno (molti, forse) può essere saggio non andare troppo oltre la memorizzazione di formule pronte all'uso: addentrarsi troppo nel senso profondo e nelle dimostrazioni potrebbe rappresentare una inutile forzatura. Così come quasi tutti possono riuscire a imparare a memoria l'"Infinito" di Leopardi, ma non per tutti è facile capirne il significato profondo.
Tuttavia, il ragionamento può essere per fortuna applicato a vari livelli. E comunque la petizione si riferiva agli studenti di quinta liceo scientifico. Quei ragazzi dovrebbero uscire dalla scuola sapendo che la matematica non è un insieme di formule, ma è piuttosto un universo di ragionamenti creativi, di intuizioni, di deduzioni: queste cose possono portare, è vero, anche a formule utilizzabili per risolvere problemi ed esercizi, ma la matematica, per fortuna, non è solo questo.

domenica 23 aprile 2017

Gli enigmi di Coelum: Il primo della classe

Ritratto di Carl Friedrich Gauss pubblicato sull'”Astronomische 
Nachrichten” nel 1828.
Tornano gli enigmi di Coelum: il protagonista di questa puntata è uno dei più grandi matematici della storia: Carl Friedrich Gauss (1777-1855). Nato da una famiglia di umile estrazione sociale, dimostrò fin dalla più tenera età la sua straordinaria propensione per la matematica e per le scienze in genere. A scuola, raccontano le cronache, si annoiava perché sapeva già tutto, avendo imparato da solo formule e regole matematiche, e non di rado arrivava a correggere il maestro.
È famoso l’aneddoto secondo il quale, all’età di nove anni, riuscì a risolvere in pochi secondi un problema che il maestro aveva assegnato alla classe allo scopo di tenere occupati i ragazzi per buona parte dell’ora di lezione. L’esercizio consisteva nel sommare tutti i numeri interi da 1 a 100. Probabilmente la maggior parte delle persone, di fronte a questo compito, non troverebbe niente di meglio da fare che eseguire pazientemente tutte le 99 addizioni, una dopo l’altra, arrivando infine al risultato richiesto.
Ma fare matematica, come dico sempre, non è fare conti, ma trovare regolarità e strutture. Il giovanissimo Gauss trovò nel problema una regolarità comodissima per arrivare alla soluzione senza impazzire con i calcoli: si accorse che la somma del primo numero, 1, e dell’ultimo numero, 100, era uguale alla somma del secondo numero, 2, e del penultimo, 99, e anche a tutte le altre somme costruibili in modo analogo spostandosi verso la somma centrale (50+51) arrivando contemporaneamente da sinistra e da destra. La somma complessiva, comprese Gauss, si ottiene quindi sommando 50 volte la somma parziale 101, ed è quindi pari a 5050.
L’insegnante di Gauss, resosi conto del genio precoce del ragazzo, lo segnalò al duca di Brunswick, il quale finanziò i suoi studi al Collegium Carolinum tra il 1792 e il 1795. Successivamente Gauss frequentò l’università di Gottinga, dove ottenne una serie di importanti risultati, tra i quali spiccano quelli inerenti alla geometria e all’invenzione dell’arimetica modulare.

Nel 1796 formulò, senza dimostrarla, la congettura nota come teorema dei numeri primi, sulla quale tornerò più avanti. Tre anni dopo, nella sua tesi di dottorato, dimostrò il teorema fondamentale dell’algebra, secondo il quale un qualsiasi polinomio di grado maggiore o uguale a 1, con coefficienti reali o complessi, ammette almeno una radice reale o complessa. Quest’ultimo risultato, anche se Gauss lo dovette precisare e perfezionare negli anni successivi, fu particolarmente rilevante, anche perché molti brillanti matematici del passato, tra cui il grande Eulero, avevano tentato di dimostrare il teorema senza mai riuscirci.
Nel 1801 pubblicò il famoso trattato Disquisitiones Arithmeticae, che raccoglieva molte delle fondamentali innovazioni ottenute negli anni precedenti nel campo della teoria dei numeri (cioè dell’aritmetica): una di queste fu l’introduzione dei numeri immaginari e complessi, che qualche lettore ricorderà di avere studiato a scuola o all’università.
Il geniale matematico tedesco soffriva di una strana malattia: il perfezionismo. Quando trovava una dimostrazione, non la pubblicava se non arrivava ad essere assolutamente certo della sua perfezione. Inoltre era ossessionato dalla possibilità che altri potessero rubargli le scoperte, e per questo appuntava le sue idee in modo criptico, così che nessuno potesse comprenderne il reale significato.

Giuseppe Piazzi
La scoperta di Cerere
Cerere, l'asteroide più grande della fascia principale del Sistema solare, oggi considerato pianeta nano, fu scoperto casualmente il 1° gennaio 1801 (il primo giorno del XIX secolo) dall’astronomo italiano Giuseppe Piazzi, presso l’Osservatorio Nazionale del Regno delle Due Sicilie a Palermo.
Piazzi non riuscì a seguire a lungo il moto di Cerere, perché l’11 febbraio l’asteroide entrò in congiuzione diventando invisibile dalla Terra. L’astro andò così perduto, e lo stesso Piazzi, non del tutto convinto di avere scoperto un nuovo pianeta, minimizzò annunciando di avere trovato semplicemente una cometa. Le osservazioni di Piazzi furono comunque pubblicate nel settembre 1801, e il ventiquattrenne Gauss entrò subito in possesso di questi dati.
Il matematico tedesco sviluppò un nuovo metodo, basato sui minimi quadrati, per determinare la traiettoria completa di un astro utilizzando tre sole osservazioni. Applicando questa tecnica al caso dell’asteroide perduto, Gauss riuscì a predire l’orbita di Cerere e i suoi calcoli condussero alla riscoperta dell’astro il 31 dicembre 1801, ad opera di Franz Xaver von Zach e Heinrich Olbers.
L’anno che si era aperto con la scoperta casuale di Piazzi si concludeva con il felice ritrovamento dell’asteroide, grazie al genio di Gauss.

Ritratto di Carl Friedrich Gauss, ad opera di
Christian Albrecht Jensen.
Numeri primi
Che cos’è un numero primo? Semplicemente un numero naturale che non può essere diviso per nessun altro numero naturale se non per 1 e per se stesso. Per esempio, 5 è un numero primo, perché non ammette divisori che non siano 1 o 5, mentre 6 non lo è, perché può essere diviso per 2 e per 3, oltre che per 1 e 6.
Il grande matematico greco Euclide dimostrò che i numeri primi sono infiniti, cioè scelto un certo numero naturale N si può sempre trovare un numero primo più grande di N.
I numeri primi sembrano collocati in modo disordinato lungo la linea dei numeri naturali. Non è per nulla facile individuare una regolarità, una legge semplice che governi la loro distribuzione.

Il teorema dei numeri primi, congetturato per la prima volta da Gauss nel 1796, descrive in modo approssimato come i numeri primi siano distribuiti tra i numeri naturali. In particolare, afferma che, scelto un numero reale positivo x, la quantità di numeri primi minori o uguali a x può essere stimata approssimativamente come x diviso il logaritmo naturale di x.
Man mano che ci spinge verso valori di x più grandi, l’approssimazione fornita dal teorema risulta sempre più accurata.
Gauss intuì che il teorema era veritiero, ma non trovò il modo di dimostrarlo rigorosamente, cosa che invece riuscì cent’anni dopo la prima formulazione, grazie ai due matematici Hadamard e de la Vallée Poussin.

La copertina delle “Disquisitiones Arithmeticae”
Il teorema fondamentale dell'aritmetica
Nelle “Disquisitiones Arithmeticae” del 1798, Gauss dimostrò per la prima volta il teorema fondamentale dell’aritmetica, secondo il quale:
Ogni numero naturale maggiore di 1 o è un numero primo o si può esprimere come prodotto di numeri primi. Tale rappresentazione è unica, se si prescinde dall’ordine in cui compaiono i fattori.
Che cosa significa questa affermazione? Prendiamo un numero come 5. Si tratta di un numero primo, e quindi ci troviamo nel primo caso. Prendiamo invece 6. Dato che questo non è un numero primo, il teorema ci assicura che possiamo esprimerlo come prodotto di numeri primi. In effetti possiamo scrivere 6 = 2 × 3, e i numeri 2 e 3 sono primi. Ma il teorema ci dice un’altra cosa ancora più importante: che non possiamo trovare un’altra fattorizzazione di 6 in numeri primi, prescindendo dall’ordine dei fattori. In altre parole, è vero che possiamo anche scrivere 6 = 3 × 2, ma questa non è una diversa fattorizzazione: è un modo diverso di scrivere quella di prima, con i fattori riportati in ordine diverso.
Il solito Euclide, negli “Elementi”, aveva dimostrato che ogni numero è primo oppure fattorizzabile in numero primi, ma non era arrivato rigorosamente a provare l’unicità della fattorizzazione. Vi si era avvicinato molto, ma fu Gauss a dimostrare per primo questa verità fondamentale della matematica.
Per evitare il “fastidio” derivante dai diversi ordini in cui i fattori primi possono essere elencati, i matematici hanno stabilito una convenzione, semplice quanto ovvia: i fattori devono essere scritti in ordine crescente, dal più piccolo al più grande, eventualmente ripetendo quelli che compaiono più volte.
I seguenti sono quindi esempi di fattorizzazioni scritte bene: 6 = 2 × 3, 60 = 2 × 2 × 3 × 5, 100 = 2 × 2 × 5 × 5.
Si pone a questo punto una vecchia e spinosa questione: anche 1 è un numero primo?
Teoricamente, se dovessimo attenerci unicamente alla definizione che ho dato sopra, dovremmo dire di sì. Ma considerare 1 come primo comporterebbe un grosso guaio: ogni fattorizzazione non sarebbe più unica, perché potremmo sempre aggiungere una quantità indefinita di uni all’inizio della fattorizzazione stessa. Avremmo cioè 60 = 2 × 2 × 3 × 5, ma anche 60 = 1 × 2 × 2 × 3 × 5, 60 = 1 × 1 × 2 × 2 × 3 × 5, 60 = 1 × 1 × 1 × 2 × 2 × 3 × 5, e così via all’infinito.
Per evitare questo fastidio, e per restituire validità al teorema fondamentale dell’aritmetica, i matematici hanno stabilito per convenzione che 1 non è primo.

Il problema prooposto e la soluzione
L’enigma di Coelum 185 proponeva di sfruttare il teorema fondamentale dell’aritmetica per costruire una specie di codice segreto utile per cifrare un messaggio. Se ciascun numero intero può essere fattorizzato in uno e in un solo modo, perché non usare questa “firma” unica per trasformare un numero in un messaggio cifrato? Per esempio, il numero 42042 viene fattorizzato come 2 × 3 × 7 × 7 × 11 × 13, e quindi la sua firma è costituita dai fattori 2, 3, 7, 7, 11, 13.
Se, a questo punto, ci inventiamo liberamente una tabella di corrispondenza che associ ogni numero primo a una lettera dell’alfabeto, la fattorizzazione si tramuta in una successione di lettere.
Immaginiamo che i numeri primi siano associati alle lettere secondo l’ordine alfabetico: il 2 corrisponderà alla lettera A, il 3 alla B, il 5 alla C, il 7 alla D, l’11 alla E, e così via.
Secondo questa chiave, il nostro numero 42042 viene codificato come ABDDEF.
Naturalmente non è necessario che scorrendo la tabella di corrispondenza in modo che i numeri primi crescano, le lettere vengano assegnate in ordine alfabetico. In altre parole, andrebbe benissimo anche una tabella in cui al 2 corrisponda la lettera M, al 3 la lettera F, al 5 la lettera Q, eccetera, così come qualunque altra tabella di corrispondenza che ci venga in mente.
L’unico (grave) inconveniente di questo metodo di crittazione è che le lettere sono soltanto 26 (considerando l’alfabeto inglese), e quindi possiamo arrivare al massimo al numero primo 101. Un numero come 2884, che si fattorizza come 2 × 2 × 7 × 103, non potrebbe essere codificato perché ci mancherebbe la lettera corrispondente al fattore 103.
L’enigma proposto, comunque, non incorreva in questo problema.
Vediamo i termini del problema. Una certa tabella di corrispondenza è stata stabilita, ma noi non la conosciamo a priori. Sappiamo solo che:
il numero 575795 viene codificato come “TERRA”
il numero 18 viene codificato come “ISS”
il numero 147407 viene codificato come “LUNA”.
Quale numero viene codificato con la parola “STELLA”?

Per risolvere il quesito, basta trovare le fattorizzazioni dei tre numeri proposti.
Il numero 575795 è sicuramente divisibile per 5 (lo riconosciamo dalla sua ultima cifra, 5): dividendolo per 5 otteniamo 115159. Come procedere ora? Abbiamo in mano un numero dispari, quindi il 2 non è tra i divisori. Nemmeno 3, 5 o 7 vanno bene, e lo possiamo verificare provando le rispettive divisioni, e osservando che escono risultati non interi. Il numero 11, invece, va bene: dividendo 115159 per 11 otteniamo il numero intero 10469. Continuando così, scopriamo che i successivi fattori primi sono 19, ancora 19, e infine 29. La fattorizzazione completa di 575795 è quindi 5 × 11 × 19 × 19 × 29.
Guardiamo la parola corrispondente: “TERRA”. La lettera T è dunque associata al numero 5, la lettera E all’11, la lettera R al 19, e la lettera A al 29.
Fattorizzare 18 è molto più facile: si trova subito che è uguale a 2 × 3 × 3: dato che la codifica letterale è “ISS”, ecco che la lettera I è associata al 2, e la lettera S al 3.
Ci rimane il numero 147407: utilizzando ancora il solito algoritmo di fattorizzazione, scopriamo che esso equivale a 13 × 17 × 23 × 29. La parola corrispondente è “LUNA”: ritroviamo correttamente la A associata al numero primo 29, e inoltre arricchiamo la nostra tabella con le corrispondenze L = 13, U = 17, N = 23.
Abbiamo ora tutti gli ingredienti necessari per risolvere il problema, cioè per decodificare la parola “STELLA”. Conosciamo già i numeri correlati alle lettere di queste parola: la S corrisponde al 3, la T al 5, la E all’11, la L al 13, e la A al 29.
Il prodotto 3 × 5 × 11 × 13 × 13 × 29 dà come risultato 808665, che quindi è il numero cercato.

venerdì 20 gennaio 2017

I sistemi di Lindenmayer e la successione di Thue-Morse

Aristid Lindenmayer
Per definire una sequenza numerica molto spesso si specificano i primi elementi della sequenza e si fornisce una regola per generare gli infiniti elementi successivi. Per esempio, la celeberrima successione di Fibonacci si costruisce partendo dagli elementi 0 e 1, e rispettando la regola secondo la quale ogni termine successivo è la somma dei due che lo precedono.
Ora, proviamo a costruire una sequenza diversa, formata esclusivamente da zeri e uni. Il suo primo elemento è uno zero. La regola da rispettare è la seguente: ogni elemento genera il suo successore attraverso le sostituzioni 0 01 e 1 10. Il secondo termine della sequenza è quindi 01. Il terzo è 0110. Il quarto 01101001. E così via.

Il sistema di costruzione della sequenza rientra nella famiglia dei cosiddetti "L-systems", o sistemi di Lindenmayer. Questa famiglia di sistemi, a sua volta, fa parte del più ampio mondo dei "sistemi di riscrittura", nei quali, genericamente, vengono fissate alcune regole di sostituzione che possono essere applicate agli oggetti di un insieme.
Un sistema di riscrittura è un sistema di Lindenmayer se esistono:
1. una famiglia di simboli ammessi;
2. un elemento iniziale formato da una concatenazione di simboli ammess;
3. un insieme di regole di sostituzione per la generazione degli elementi successivi.

Disegni di piante generati mediante sistemi di Lindenmayer
Non deve stupire che questi sistemi prendano il loro nome non da un matematico o da un informatico, ma da un biologo. L'ungherese Aristid Lindenmayer, infatti, vissuto tra il 1925 e il 1989, ideò questo giochino di riscrittura per descrivere formalmente il comportamento delle cellule vegetali e la crescita di alcuni semplici organismi multicellulari, ad esempio particolari tipi di alghe. Successivamente i sistemi di Lindenmayer vennero applicati con successo anche a specie vegetali più complesse. Sono stati impiegati anche per generare frattali, mediante un processo di autosimilarità (un frattale costituito da più copie di se stesso, come il celebre triangolo di Sierpinski).

Torniamo all'esempio iniziale. In questo caso, i simboli ammessi sono 0 e 1, l'elemento iniziale è 0, e le regole di sostituzione sono quelle citate sopra: 0 01 e 1 10.
Diamo ancora un'occhiata ai primi termini della sequenza: 0, 01, 0110, 01101001, ... Balza all'occhio una prima proprietà: ogni elemento della successione è formato da un numero di cifre doppio rispetto al suo predecessore.
Un'altra caratteristica è la seguente: ogni elemento è costituito dal suo predecessore concatenato con il suo complemento. Detto altrimenti, ogni termine include il precedente come sua prima metà. Per esempio, abbiamo visto che il terzo termine è 0110. Per costruire il suo complemento basta invertire ogni cifra binaria, cioè trasformare gli zeri in uni e viceversa. Otteniamo quindi 1001. Il nostro quarto elemento è 0110 concatenato a 1001, cioè 01101001.

Ecco, abbiamo trovato un modo alternativo per definire in modo costruttivo la nostra sequenza, che viene illustrato nella figura a fianco.

In virtù della seconda proprietà del sistema, potremmo considerare un'altra sequenza: anziché la successione delle stringhe binarie che raddoppiano di lunghezza ad ogni passo, potremmo considerare un'unica stringa, quella di lunghezza infinita alla quale converge la sequenza che abbiamo preso in esame in precedenza: anche questa stringa può essere studiata come una successione, perché è formata da cifre binarie che ne costituiscono gli elementi.
I primi 16 termini della successione sono quindi: 0110100110010110.

Una volta formalizzata la successione in questo modo, saltano fuori alcune proprietà davvero sorprendenti. Ma andiamo in ordine.
Per cominciare, la successione viene chiamata di Thue-Morse, dai nomi dei due matematici che l'hanno studiata: il danese Axel Thue e l'americano Marston Morse.

Vediamo una prima proprietà: l'n-esimo termine della successione è uguale a:
  • 0, se il numero n-1 espresso in forma binaria contiene un numero pari di uni;
  • 1, se il numero n-1 espresso in forma binaria contiene un numero dispari di uni.
Attenzione: l'elemento che compare per primo nella sequenza è in realtà associato all'indice 0, non all'1. In binario, 0 si scrive ancora 0, che non contiene uni al suo interno. Zero può essere considerato un numero pari, quindi il primo elemento è 0. Vediamo ora, ad esempio, l'elemento associato a n=5: in binario 5 si scrive 101, che contiene due uni. Due è pari, quindi il sesto elemento è 0. Il nono elemento: 8 in binario è 1000, in cui compare un solo uno. Essendo uno dispari, il nono elemento è un 1. E così via.

Quel genio matematico che risponde al nome di John Conway e di cui ho parlato più volte (ad esempio qui), ha avuto un'ideona: ha chiamato "odiosi" i numeri interi n tali per cui l'n-esimo termine della sequenza di Thue-Morse è 1, e "malvagi" quelli per cui l'n-esimo termine è 0. Perché tutto questo odio e questa malvagità"? Soltanto un gioco di parole: in inglese "pari" si dice "even", che suona simile a "evil" ("malvagio"), e "dispari" si dice "odd", che assomiglia a "odious" ("odioso").

Un'altra curiosa proprietà è la seguente: fissato a 0 il termine associato a n=0, il termine associato a 2n (con n naturale qualsiasi) è uguale a quello associato a n, e il termine associato a 2n+1 è uguale al "complemento" del termine associato a n ("complemento" nel senso che 1 è il complemento di 0 e viceversa). Provare per credere.

Non è nemmeno difficile convincersi del fatto che, preso un qualsiasi n naturale, la porzione di successione formata dai primi 2n termini è palindroma, cioè si legge allo stesso modo da sinistra a destra e da destra a sinistra.

Ma il bello deve ancora venire. Intanto beccatevi le proprietà qui a fianco. Che la successione di Thue-Morse sia legata a quantità come la radice quadrata di 2 può sembra abbastanza normale, ma che anche qui venga fuori pi greco, beh, è già molto più stupefacente.
Ricordate il linguaggio Logo, quello che poteva essere usato, tra le altre cose, per guidare una tartaruga su un piano cartesiano?
Ebbene, immaginiamo che i termini successivi della sequenza di Thue-Morse rappresentino ordini impartiti alla tartaruga. Più precisamente, un 1 deve essere interpretato come "vai avanti di una posizione", e uno 0 come "girati in senso antiorario di 60°".
Secondo voi che disegno traccerà la tartaruga seguendo le cifre binarie della nostra sequenza? Proviamo a vedere.

Non si capisce molto, vero? Già, perché servono molti termini della sequenza, cioè molte istruzioni per  il simpatico rettile, perché il risultato cominci a prendere forma. Vediamo cosa succede dopo 28 = 256, 210 = 1024, 212 = 4096 e 214 = 16384 istruzioni.



Vi ricorda qualcosa? Se scegliamo, per la cifra 1, una rotazione antioraria di 120° anziché 60°, si ottiene un disegno ancora più pulito:


Ebbene sì: è il fiocco di neve di Koch, uno dei frattali più famosi. Modificando ancora le regole della tartaruga, ma utilizzando sempre la successione di Thue-Morse, si ottengono risultati interessanti, come questi:


Per questi e altri divertimenti vi rimando al blog Three-Cornered Things di Zachary Abel.

Max Euwe
Una proprietà interessante della successione di Thue-Morse è l'assenza in essa di stringhe della forma XXX, dove X è una qualsiasi sequenza di cifre binarie. Un grande campione di scacchi come Machgielis "Max" Euwe (1901 – 1981), che oltre ad essere stato il quinto campione del mondo di scacchi tra il 1935 e il 1937, fu anche una brillante mente matematica, contestò una delle regole "tedesche" che vigevano nel gioco degli scacchi intorno al 1929: una partita poteva essere dichiarata patta se la stessa sequenza di mosse viene ripetuta per tre volte di seguito.
Sfruttando la successione di Thue-Morse, Euwe dimostrò che la regola non escludeva di per sè partite di lunghezza infinita.
Grazie a questa scoperta, venne accettata universalmente la regola in base alla quale una partita può essere dichiarata patta se una posizione si presenta per tre volte, indipendentemente da quali mosse l'abbiano determinata.

E qui mi fermo. La sequenza di Thue-Morse ha anche affascinanti connessioni con il gioco del Nim, con la risoluzione di problemi di distribuzione di risorse tra due contendenti, con la teoria dei numeri, con la combinatoria delle parole, e con un sacco di altre cose. Buon divertimento.

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